"7th Symphony" è il settimo sigillo degli archi più famosi del metal, balzati agli onori della cronaca per aver riletto famosi classici del genere in uno stile bizarro quanto gradevole.
Da quel lontano debutto, gli Apocalyptica hanno progressivamente abbandonato la strada delle cover per intraprendere un percorso musicale più convincente, grazie anche all'ingresso in pianta stabile di un batterista che ne ha ampliato le potenzialità.
Sulla stessa linea del predecessore "Worlds collide", "7th Symphony" si caratterizza per la presenza di brani interamente composti dal quartetto finnico, alcuni dei quali vedono la partecipazione speciale di alcuni ospiti del panorama rock e metal.
"At the gates of Manala", brano strumentale di apertura, è uno splendido esempio di cosa sono gli Apocalytica oggi: i violoncelli delicati di un tempo sono ora carichi di distorsioni, portando così la musica della band ad un livello più vicino alle inclinazioni metalliche dei musicisti;la presenza della batteria gioca poi un ruolo fondamentale nel guidare le scorribande dei talentuosi violoncellisti nei continui cambi tra parti veloci e quelle più atmosferiche.
Mettiamoci pure che a produrre il disco è sua maestà Joe Barresi ed il gioco è fatto.
Nel disco, come accennato in precedenza, figurano le collaborazioni con ospiti particolari che rendono ancora più appetibile l'ascolto dell'intero album, un pò secondo moda lanciata qualche tempo fà da Santana.
La prima di queste collaborazioni è "End of me", con Gavin Rossdale (Bush) alla voce, un pezzo semplice e ben costruito anche se non troppo coinvolgente.
"Not strong enough" ospita al microfono Brent Smith (Shinedown), brano anche questo ruffiano ma decisamente più convincente del predecessore.
Con "2010" tornano ad aver voce i soli strumenti, ma questa volta a finire sotto i riflettori è Dave lombardo che ci regala l'ennesima prova della sua bravura in quello che è uno dei pezzi più riusciti del disco.
Le ultime due partecipazioni sono quelle di Lacey (Flyleaf) e Joe Duplantier (Gojira) nei brani "Broken pieces" e "Bring them to light": il primo sicuramente è il punto più basso del disco, forse un pò troppo smielato, mentre il secondo è decisamente più interessante, anche se ricalca un pò troppo le linee della band madre di Duplantier.
Personalmente ho apprezzato molto di più i momenti in cui gli unici protagonisti in scena sono gli Apocalyptica, liberi di dar sfogo a tutta la loro creatività senza che i violoncelli si limitino ad accompagnare la voce di turno. E' per questo che gli altri tre brani rimasti da commentare risultano tra i miei favoriti: "On the rooftop with Quasimodo", con quell'inizio molto tooliano, è maestosa nel suo incedere, potenzialmente perfetta per una colonna sonora; "Sacra" (ispirata da una canzone della tradizione finnica) ci porta con la mente nei meravigliosi paesaggi del nord, mentre la conclusiva "Rage of poseidon" dipinge una mare tempestoso che conclude nel migliore dei modi questo interessantissimo "7th Symphony".

VOTO 7, DANY75

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  • #1

    inertia (martedì, 29 gennaio 2013 22:59)

    Capolavoro. Oltre alle singole tracce quello che si scolpisce nella testa è l'atmosfera generale del concept e l'interpretazione vocale dei singers. Se non l'avete procuratevelo!!!!!

Sto cominciando seriamente a pensare che Arjen Anthony Lucassen ci goda a far provare a tutti i suoi ascoltatori un senso di totale inadeguatezza e piccolezza di fronte ai suoi (capo)lavori, si perchè diciamocelo, da "The Final Experiment" del 1995 mr. Ayreon ne ha sbagliate davvero poche, vuoi per il grande spessore artistico di questo uomo o perchè ha trovato la ricetta perfetta per comporre progressive rock/metal, fatto sta che davvero canzoni minori nella sua discografia se ne trovano pochissime, e anche  "01011001" datato 2008 non si sottrae a questo giudizio. Contornato da un cast di ospiti davvero stellare, composto, giusto per fare qualche nome da gente del calibro di Hansi Kursch, Daniel Gildenlow, o ancora Jorn Lande e Bob Catley, Arjen ci dona ancora una volta un'opera coraggiosa, ricca di influenze musicali tra le più disparate, dall'elettronica al puro heavy metal, passando per passaggi più easy dal sapore quasi pop, senza disdegnare qualche incursione nel folk, dando vita un platter estremamente dinamico, in continua evoluzione, mai statico, ma che riesce ad essere estremamente compatto. Diviso in due episodi per un totale di 15 canzoni, questo "01011001" sembra diviso in base all'anima delle canzoni, dal momento in cui, se nella prima parte il lavoro si dimostra più melodico e caratterizzato da momenti che di metal hanno davvero poco, anche laddove si decida di premere il piede sull'acceleratore, è nella seconda che esce fuori tutta la potenza e la carica che questo piccolo uomo è capace di tirare fuori, ed è così quindi che ci troviamo davanti a pezzi come "The Sixth Extintion", capace di passare da momenti pacati ed ariosi ad altri carichi di tensione, nei quali fanno la loro comparsa cori gotici estremamente atmosferici, ma anche tenebrosi, e (rullo di tamburi) per la prima volta addirittura il growl. Da citare sempre sulle stesse coordinate risulta essere "The Earth Extinction", seconda delle suite oltre i dieci minuti, che pur essendo profondamente debitrice al rock folkeggiante di Blackmore's Night ed affini, risulta capace, grazie ai suoi riff estremamente potenti, a mantenere alto il tiro pur non risultando esasperata. Eccellente poi l'utilizzo che viene fatto delle tastiere in questo pezzo, ad opera per altro di un certo signor Derek Sherinian, che contribuiscono a rendere ancora più appetibile il pezzo. Come si diceva prima però esiste anche un'anima più dolce e sensibile del disco, riscontrabile per lo più nella prima parte, ed è così allora che si susseguono canzoni quali "Beneath The Waves" o ancora la track d'introduzione al disco "Age Of Shadows", arricchita dalla splendida ed opaca voce di Jonas Renkse (per chi non lo sapesse voce dei sempre verdi Katatonia... anzi verdi no, magari grigi), che carica di pathos un pezzo che sennò sarebbe stato forse il più debole dell'intero lp. E' sempre nel primo disco che si trova poi quella che, a mio parere, è forse una delle cose migliori mai scritte per questo progetto, ossia "New Born Race", un misto tra melodie easy listening, parti folkeggianti, ritmi spensierati danno vita ad un episodio che come un raggio di luce irrompe in una giornata un poco grigia, dando quel tocco di lucentezza che altrimenti sarebe mancato. Parlare oltre delle canzoni mi sembrerebbe inutile e toglierebbe inoltre il senso di sorpresa all'ascolto delle traccie, mi preme invece sottolineare la prestazione di ogni singolo musicista, davvero eccellente, pulita e scevra da ogni critica negativa, con picchi di eccellenza per ciascun partecipante al progetto, che a modo suo aggiunge un piccolo tassello in un mosaico che non ha nulla che non vada, ma che invece spicca, per originalità e piacevolezza d'ascolto, su metà delle uscite dozzinali che ogni anno mi portano sempre più a pensare che il progressive metal si stia un poco adagiando sugli allori di un passato glorioso; ma per fortuna che c'è Anthony che magari si, ci farà sentire un tantinello piccoli di fronte a queste opere metal, ma ci fa anche felici con prodotti sempre di altà qualità e godibilità.

Voto 9 Dany75 

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  • #1

    cadaveria83 (lunedì, 28 gennaio 2013 23:05)

    discoooooooooooonnnneeeeeeeee!!!

Whoracle uscì nel Novembre del 1997. Si trattava del terzo album della band, ai tempi in cui Björn Gelotte suonava la batteria e gli In Flames erano poco più che una sconosciuta band proveniente dal sud della Svezia. Quello che in seguito diverrà il “Göteborg-Metal” era poco più che alla sua fase embrionale, ma sebbene si trovassero anni luce dal successo che li travolgerà definitivamente con album del calibro di Clayman, i tre mastermind svedesi (Fridén, Strömblad e Gelotte) seppero cogliere l’opportunità di avvicinare il grande pubblico con una prima virata stilistica. Non l’hanno mai negato gli stessi In Flames, che in una vecchia intervista rilasciata al sottoscritto definirono il concept elaborato nel titolo come “l’unione della parola Oracolo e Prostituta […] il fatto di trovarsi a dover fare qualcosa per denaro, per poter sopravvivere”. Ed ecco allora la macchina da guerra conosciuta con Lunar Strain e The Jester Race spiegare le sue grandi ali per abbracciare un primo flusso di successo.

L’evoluzione alla quale assistono i fan della band, lascia l’amaro in bocca solo fino ad un certo punto. Le canzoni si fanno ora più assimilabili, la complessità dei brani cala insieme alla velocità degli stessi, in quello che si rivela l’olimpo del mid-tempo. Pezzi stupendi come Gyroscope,World Within the MarginJotun o la stessa Everything Counts (cover di ottantiana memoria), fondano la loro impareggiabile bellezza non sulla velocità pura e semplice, ma su chitarre melodiche e ritornelli di una epicità rabbiosa. Non mancano certo rasoiate più dirette, ma queste sono costrette a ritagliarsi una propria dimensione, all’interno del quale brillano di luce bollenteFood For the Gods e The Hive, recentemente rispolverata dai cinque di Göteborg per il A Sense of Purpose European Tour. La voce di Fridén poi, lontana dalle sperimentazioni melodiche degli album post-Clayman, grezza, violenta e in qualche modo ancora acerba, mostra i primi segni di un progressivo miglioramento. 

In un certo senso, spaventa pensare che uno dei chitarristi attualmente più ispirati nel panorama estremo, solo undici anni fa fosse impiegato, a causa di problemi di line-up, come batterista di una band di discreto successo. Gelotte non hai mai fatto segreto della sua predilezione per lo strumento a sei corde, ma seppe in quel periodo farsi carico (con buoni risultati) delle necessità di un gruppo messo in difficoltà da una scena musicale estremamente viva, ma altrettanto instabile. In quella seconda metà di anni novanta finirono infatti per militare negli In Flamesdiversi artisti che raggiungeranno la notorietà in formazioni di successo, ed altri personaggi meno fortunati. Tra questi Niklas Engelin, attualmente in forza agli Engel, Johan Larsson, bassista deiSeance e già membro degli esordienti Hammerfall insieme a Glenn Ljungström, prima spalla di Strömblad negli stessi In Flames.

Whoracle segna la prima rottura nella carriera discografica della band. Con Colony e Claymangli In Flames si incammineranno lungo il sentiero che inevitabilmente li porterà sino al gioiello/disastro “Reroute to Remain, ma è a partire da quest’album che le cose cominciarono a cambiare. Le sperimentazioni si riducono alle splendide contaminazioni acustiche che tutti conosciamo, toccando proprio su questo disco l’apoteosi della meraviglia in uno degli spunti più ispirati dell’intera loro carriera. Dialogue With the Stars giunge come un magico dono del notturno cielo di Svezia. La canzone, una strumentale di appena tre minuti, violenta le percezioni emotive dell’ascoltatore con melodie tanto preziose da costringere al silenzio, mentre chitarre, prima distorte, poi acustiche, ed ora fuse in vivido fervore, tracciano lunghe pennellate sulla volta celeste, come ad unire gli astri in un disegno divino di effimera perfezione.

Un album fondamentale per chi conosce gli In Flames, capolavoro forse non assoluto, ma certamente degno di un posto d’onore nella vostra collezione privata. Per chi ha la sfortuna di non amare ancora questa band, rimane un disco da possedere in ogni caso. Chiunque siate, qualunque sia la vostra storia, non farete alcuna fatica a trovare il vostro modo di apprezzare questo gioiello. 

TWOLFF.VOTO 8,5

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  • #1

    gorgoroth (lunedì, 28 gennaio 2013 22:31)

    ottimo lavoro anche se il precedente lo supera di gran lunga

Dopo Lucidity, album realizzato grazie al fondamentale apporto di una sterminata lista di guest musicians i Delain rilasciano il loro primo vero album da band; Martjin Westerholt e Charlotte Wessels, le vere colonne portanti del gruppo, sono riusciti a mettere insieme una lineup abbastanza stabile, composta da musicisti giovani e motivati, scossa solo in tempi recenti dall'abbandono del chitarrista Ronald Landa per le solite non meglio specificate “divergenze musicali” prontamente sostituito da Ewout Pieters (Mythlorian).
April Rain può sembrare il tipico album uscito dall'affollatissima scena gothic/symphonic olandese, e vi è sicuramente connesso (Westerholt è pur sempre l'ex tastierista dei Within Temptation), presenta però delle differenze dai canoni di tale genere che non possono essere ignorate, infatti: nonostante la musica proposta sia metal (con qualche leggera contaminazione elettronica, e penso alla title-track) a tutti gli effetti, la struttura delle canzoni (strofa-ritornello-strofa-ritornello) è palesemente di derivazione pop (anche se con l'aggiunta di assoli di chitarra non particolarmente tecnici ma comunque azzeccati); la voce di Charlotte non è quella lirica diSharon Den Adel o di Simone Simons ma ben si adatta a questo tipo di canzoni, brevi (mai oltre i 5 minuti) e prive di orchestrazioni pompose; i Delain hanno anche quasi del tutto eliminato il clichè de “la bella e la bestia”, le voci maschili sono difatti assai limitate per lasciare spazio alla voce di Charlotte che ha registrato anche tutti i backing vocals (solo in Virtue and Vice il chitarrista Landa accenna un pezzo in growl, tra l'altro ben eseguito).
È doveroso sottolineare come la ventiduenne Charlotte Wessels abbia scritto tutti i testi, le musiche di On the Other Side e abbia lavorato all'armonizzazione di tutte le linee vocali, fatto assolutamente notevole se si considera la giovane età ed il fatto che questa ragazza non faccia la musicista di professione da molto tempo.
Parlando più nello specifico della musica è evidente come la tastiera di Westerholt la faccia da padrona specie nelle parti più lente, mentre comunque la chitarra (a volte anche acustica) supportata da un buon comparto ritmico riesce bene nelle parti più veloci, con riff di nuovo non particolarmente elaborati ma incisivi; è da notare come tutte le canzoni (a parte le ballads On the Other SideStart Swimming e Come Closer) siano caratterizzate da un contrasto parti veloci/parti lente molto marcato.
Anche su questo disco sono presenti degli ospiti, e anche di un certo spessore, a partire daGuus Eikens (ex Orphanage) che ha contribuito alla fase compositiva, per il resto quasi del tutto lasciata nelle abili mani di Westerholt; segnalo inoltre la presenza come seconda voce diMarco Hietala (Nightwish, Tarot) in Control the Storm e Nothing Left e della musicista coreana Maria Ahn per le parti di violoncello in On the Other Side.
Come ogni opera umana questo disco non è esente da critiche negative, infatti in certe canzoni come April Rain la ritmica risulta un po' sacrificata, al punto che in molti passaggi non sentiamo il basso; è anche difficile selezionare una traccia che spicchi particolarmente sulle altre, nonostante il sottoscritto faccia fatica a trovarne una “brutta”, quindi a parte certe eccezioni come Nothing LeftInvidia o I'll Reach You il disco è abbastanza omogeneo. I pezzi sono tutti molto easy listening, il che potrebbe far storcere il naso a chi considera la semplicità come un sintomo di debolezza o come sinonimo di commerciale, cosa che a mio parere quest'album non è assolutamente.
Non mi è assolutamente piaciuto l'artwork, con la sola Charlotte in luce, mentre il resto della band è in ombra dietro: va bene è una bella ragazza, però sembra la classica imposizione della casa discografica per rendere il disco più appetibile al pubblico maschile.

In definitiva April Rain è un disco secondo me valido, non piacerà sicuramente ai metallari più oltranzisti, ma nei Delain vedo dei ragazzi umili che ancora fanno musica per passione, che la fanno senza curarsi troppo del vil denaro e che hanno ancora ampi margini di evoluzione.
Lasciate che i loro ritornelli vi entrino in testa e vi garantisco che sarà dura farli sloggiare. 

VOTO 8. TWOLFF

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  • #1

    sbo' (mercoledì, 23 gennaio 2013 00:18)

    bhe! che dire bel disco anche se in campo gothic preferisco altri gruppi

Nel 1994 i Timoria dopo una lunga gavetta venivano dal trionfale "Viaggio Senza Vento" ed erano la rock band italiana più popolare e in vista, secondi probabilmente solo a Litfiba e CSI, tra il novembre di quell'anno e il gennaio del successivo entrarono in studio e realizzarono il loro vertice assoluto: "2020 Speedball". Anche se quasi tutti descrivono l'illustre predecessore come il loro personale capolavoro, probabilmente soprattutto per il suo concept lirico, questo loro quinto album (senza contare ep e demo) si presenta come il loro lavoro migliore musicalmente, almeno secondo chi scrive.

Questa volta non c'è nessun concept nelle liriche, e gli effetti si sentono subito nella prima traccia, o seconda se si considera l'inutile intro, "2020": il testo è molto diretto ed esplicito e non troppo impegnato, diciamo così: "Voglio bruciare la voglia che è dentro di me 2020 volte, finchè avrò forza per fare l'amore con te, 2020 stai con me, stai con me". Musicalmente è sicuramente una delle più dure del disco, ottima; le successive "Brain Machine" e "Senza Far Rumore" sono mediocri: la prima ha un buon riff ma nel complesso appare abbastanza insufficente, la seconda invece è troppo melodica e anche il testo non è il massimo: "Ma se conosci l'amore, ovunque andrai ricordati di me, sai, è più grande del mare, ovunque andrai ti sopravviverà". Ora però con "Speedball" abbiamo la prima vera perla, ed è una perla autentica: puro hard rock su un testo dichiaratamente contro le droghe ma che esprime comunque ribellione e un disperato desiderio d'evasione: "Vivere, morire in fretta, datemi la via d'uscita", roba da classic rock anni 60. Da sottolineare Renga, al suo meglio in questo brano.

"Dancin' Queen" è il brano più controverso, già dal titolo che evoca gli Abba non promette niente di buono, alla fine si rivela un onesto dance rock, comunque apprezzabile per coraggio, contribuisce se non altro alla varietà del lavoro, anche se personalmente ne avrei anche fatto a meno. Su "Sudamerica" poco da dire, un altra perla assuluta dopo "Speedball": un testo fantastico dedicato al "paese sacro violentato": "Io percorrerò le strade del bandito, amato dalla gente ucciso dallo stato", un inno, anche musicalmente una delle migliori in assoluto di tutta la discografia della band. Con "Week End" si torna più in basso con un brano decisamente risparmiabile; da ora in poi però non si sbaglierà (quasi) più: la santaniana "Duna Connection" introduce alla strepitosa "Europa 3" che parte con il famoso intro simil"Shine On", si fa poi ottima ballad per esplodere nel suggestivo violentissimo delirio finale: "Su una stella nuova per ritrovare quello che quì non c'è: mai più vita, mai più amore", tensione e violenza alle stelle, si candida prepotentemente come migliore traccia.

Anche la successiva "Mi Manca L'aria" però non scherza affatto: un violentissimo pezzo con il Renga che non ti aspetti, almeno per chi lo ha conosciuto (purtroppo) negli anni 2000, ovvero con un inedito canto growl stile death metal, anche se ovviamente lontano dal vero growl dei maestri come Shoudiner o Becerra, ma quello ovviamente non è il suo genere; grandioso anche il controcanto del leader Pedrini: "Uomini senza anima, la poesia è morta ormai, musica, fiori di plastica... morirò? Mi manca l'aria". "Via Padana Superiore": capolavoro del grande Omar Pedrini, autentico deus ex machina del progetto, che canta in questa stupenda ballata intrisa di malinconia e tristezza: "Sale la nebbia, sale nei miei occhi, lei dorme e sembra rida un pò/ Continuerà ad amare un uomo finito? Non ho più niente da raccontare ormai". Senza parole.

"No Money No Love" è un altro intermezzo, si può discutere sull'utilità di questi mini pezzi, sta di fatto che anche in questo caso come la precedente "Duna Connection" il risultato è un godibilissimo pezzetto con influenze blues e funk; siamo ora introdotti agli ultimi 2 capolavori: "Guru" e soprattutto il magnifico viaggio epico di "Boccadoro", in particolare quest'ultimo è la prova definitiva della grandezza e della varietà di questo lavoro, tra i tanti grandi pezzi forse prorpio questo risulta alla fine il migliore di tutti, almeno secondo me, in grande spolvero l'ottimo Enrico Ghedi alle tastiere. L'inutile riempitivo "Fare I Duri Costa Caro" e l'ottima anche se non straordiaria "Fino In Fondo" chiudono questo grande disco, come ho detto all'inizio senz'altro il vertice del gruppo bresciano, senza nulla togliere ad altri ottimi album del gruppo.

Alla fine tutto sommato non un capolavoro assoluto, ma sicuramente un grande album, il più duro e vario del gruppo, che mi sento di consigliare a chi ancora non lo conoscesse. Prima che Renga fecesse lo stronzo con Pedrini e si vendesse totalmente senza pudore alcuno, prima delle varie vicessitudini e disgrazie allo stesso Omar e al grande Illorca, i timoria al loro meglio con uno dei vertici anche del rock italiano in generale negli anni 90, gli ultimi fertili per il rock. Voto 8
Dany75

Commenti: 3 (Discussione conclusa)
  • #3

    sonya (martedì, 22 gennaio 2013 00:16)

    che dire mitici anni prima della disfatta dei timoria, bellissimo album

  • #2

    Fonix (lunedì, 21 gennaio 2013 22:48)

    grandi timoria, pensare a Renga oggi mi deprime

  • #1

    TWolff (mercoledì, 16 gennaio 2013 06:28)

    Almeno per quanto riguarda la musica l'italia un pò di orgoglio lo da!

Ci sono dei rari, rarissimi dischi – vere e proprie opere d’arte in tutti i sensi – che è quasi impossibile riuscire a spiegare, analizzare, sezionare.
Ci sono dei rari, rarissimi dischi che contengono tutto quello che un dato momento storico-social-musicale è in grado di trasmettere, e ci sono gruppi i quali, senza esattamente rendersi conto del come e del perché, riescono a farsi icone viventi del sentimento, del modo di vivere, sentire, soffrire, disperarsi, lottare ed urlare di una intera generazione; quei dischi e quei gruppi sono destinati alla storia, ciò qualsiasi cosa abbiano fatto in precedenza e qualsiasi cosa, anche negativa – ed è questo il caso – siano destinati a fare dopo.
Master Of Puppets dei Metallica è uno dei più perfetti esempi disponibili su piazza in questo senso.

La band si era già posta, in un periodo di tempo molto limitato, a capo di un movimento musicale allora ancora giovane, ma già in grado di irretire milioni di fan in tutto il mondo, e dopo l’acerba, ma incendiaria prima prova di Kill’Em All  e la maturazione trovata in Ride The Lightning -stesso discorso perché presa da Revolver a Roma di ritorno dal concerto AC/DC+Mötley Crüe- l’uscita di Master Of Puppets rappresentava la prova del fuoco per un gruppo che si trovava davanti ad un importante bivio: cominciare a godersi quanto conquistato sfornando un album in sicurezza, o cercare di spostare un po’ più in là il tiro provando a fare qualcosa di più rischioso, e così per fortuna fecero.
Non tanto per l’opener Battery -incentrata sul tema della violenza fisica- semplice, rocciosa e quadrata, ma per il suono, diverso dal solito, più cupo, più oscuro; ma solo la successiva canzone-manifesto Master of Puppets mi fece capire quanto il suono era diverso.
Il produttore Fleming Rasmussen, di concerto con i membri della band e con Hetfield in particolare, era riuscito a ricavare presso gli Sweet Silence Studios di Copenaghen un suono incredibilmente compresso. Avviluppato su se stesso –forse soprattutto per ciò che riguarda la batteria di Ulrich- ma nel contempo pesante, claustrofobico, direi perfettamente nel mood dei racconti di Lovecraft, la cui influenza attraversa diagonalmente tutto il lavoro.
Master of Puppets (il brano) infatti si può porre su tre piani di lettura: uno più palese che riguarda la tossicodipendenza; uno più evidente che riguarda il rapporto potente/sottomesso; ed un altro - più subliminale – che sembra rifarsi alle divinità dei Miti di Cthulhu, tesi avvalorata dal pezzo successivo.
Ad ogni modo Master of Puppets definì gli standard compositivi del Thrash più ricercato e contiene nella seconda parte, oltre ad una dose elevata di pathos (anche questo presente in tutto l’album), uno dei soli migliori di Hammett il quale -narra la leggenda- prese alcune lezioni daSatriani.

La vena compositiva del gruppo, ispirata come non sarà mai più, trova il suo compendio in The Thing That Should Not Be, incredibilmente pesante pur non essendo molto veloce, incredibilmente destabilizzante, quasi insopportabile nella sua schizofrenicità più oscura di quella trasmessa dai Black Sabbath stessi.
Il culto di Chtulhu è vivo, Lui è vivo nel suo tempio di R’lyeh, e tutto il cosmico terrore del distico dell’arabo pazzo Abdul Alhazred e del suo immondo Necronomicon è percepibile nella sua incommensurabile empietà.
La stessa follia tramessa dal crescendo di Welcome Home (Sanitarium), e dalla sofferenza indicibile del ricoverato, reduce dal Vietnam, che sogna la fuga tra i normali (?), ballad all’inizio, violenza straziante alla fine: bellissima.
Ancora critica sociale alla guerra ed alle sue storture nella seconda facciata con Disposable Heroes, la violenza della battaglia e l’equilibrio tra i componenti del gruppo per confezionare un brano tra i più violenti dell’epoca.
Più tradizionale Leper Messiah, altra invettiva a sfondo sociale stavolta contro i telepredicatori americani, all’epoca fenomeno quasi sconosciuto da noi, e brano che presenta più di una assonanza con certe cose dei Megadeth, non per nulla Mustaine ed Hetfield avranno più di una discussione circa la paternità del riff di base.
A chiudere il tutto uno strumentale -Orion- dalla partitura molto complessa ed all’epoca molto sottovalutata; ed una devastante Damage Inc. che riporta ai tempi di Kill’Em All, ma con il suono aggiornato.
Vi sarete accorti che fino ad ora non ho mai citato il quarto componente del gruppo, Cliff Burton, ciò perché egli merita un discorso a parte.
Sicuramente il componente più tecnico dei Metallica –sua, per fare un esempio, Orion- e responsabile dei momenti più validi dal punto di vista tecnico della storia della band dai suoi inizi fino a questo disco, trovò la morte in un assurdo incidente con il tour bus in Svezia dopo un concerto con gli Anthrax -che gli dedicheranno Among the Living- probabilmente a causa dell’ubriachezza del conducente e, somma ironia della sorte, dopo essersi giocato il posto sul bus, l’unico mortale, con Kirk Hammett.
Considerato uno dei bassisti metal più tecnici di sempre la sua dipartita ha condizionato anche il resto della carriera dei ’Tallica i quali, forse, ci avrebbero risparmiato certe prove decisamente sottotono, ma si tratta ovviamente di un dettaglio rispetto alla morte di Cliff, (R.I.P.).
Ho amato Master Of Puppets come pochissimi altri dischi, e lo considero uno dei primi 5 album metal di sempre; i suoi 54.41 minuti di musica sono destinati a rimanere ben oltre la band, ben oltre i suoi passi falsi, e ben oltre le etichette di genere, perché qui non si tratta di metal, thrash, heavy o altro, si tratta di musica, grande, grandissima, ispiratissima musica. 

9/10.TWOLFF.

Commenti: 4 (Discussione conclusa)
  • #4

    TOP (sabato, 13 luglio 2013 11:17)

    10

  • #3

    soaionuass (venerdì, 15 marzo 2013 09:50)

    io darei 10

  • #2

    wolfbass (martedì, 15 gennaio 2013 22:29)

    Ognuno è libero di pensare quello che vuole, ma questo è indubbiamente il disco cha ha cambiato la storia dell'heavy metal. e più in generale dell'hard rock. Finalmente un gruppo metal si stacca e realizza qualcosa che prima non si era mai ascoltato. Grazie anche e soprattutto alla classe di Burton. Siamo davvero nell'olimpo.

  • #1

    XIOMARA (martedì, 15 gennaio 2013 21:19)

    RAGAZZI SIAMO DIFRONTE ALLA STORIA....

Tra gli album che ogni buon amante di musica heavy dovrebbe custodire gelosamente, occupa i primissimi posti "Roots" dei brasiliani Sepultura. Il CD uscito nel 1996 a cura della Roadrunner,  presenta la band brasiliana in una veste totalmente inedita.  Per la  registrazione dell'album, il gruppo ha  passato un lungo periodo a stretto contatto con una vera e propria tribù , nei pressi di Mato Grosso (Brasile), influenzando e contaminando il robusto thrash metal suonato nel passato con suoni tribali e percussivi, in linea coerente con quanto già fatto nel precedente album ("Kaiowas").

Dopo l'opening track "Roots Bloody Roots", si intuisce già che ci ritrova con qualcosa di dannatamente potente ed intenso, grazie al carisma della voce "Leonina" di Max Cavalera; "Attitude" chiarisce a tutti quali sono le nuove influenze del gruppo, suoni nuovi assalgono l'ignaro ascoltatore fondendo il tutto con solidissimi riffoni metal "Cut Throath""Ratamahatta" con le sue svariate  influenze è il pezzo più significativo di questo nuovo corso, aperto da cori Xavantes, contorniati di percussionisti vari il brano sprigiona tutta la sua potenza . Ospiti d'eccezzione quali Mike Patton (Faith no more/Tomahawk), o  Jonathan Davis (Korn), ci regalano emozioni intense ("Lookway"), aumentando il valore aggiunto di un album di per sè unico nel suo genere. 
Si riprende fiato con brani strumentali ("Jasco/Itsàri") che ci preparano all'assalto finale. Dopo l'uscita del cd ci furono veri e propri malumori da parte di chi non gradiva la svolta tribale, preferendo le atmosfere "pure" dei precedenti album. I dissidi interni furono talmente grandi che il gruppo dovette separarsi dal suo singer, che in continuità con le sonorità di "Roots", andrà a formare i Soulfly. Gli altri Sepultura (tra i quali il fratello Igor alla batteria), non riusciranno nel corso degli anni a raggiungere  gli antichi fasti, producendo album sufficienti. Il suono complessivo curato da Ross Robinson e Andy Wallace è azzeccato, in quanto esalta la potenza aggressiva del gruppo valorizzando la nitidezza del suono. La versione digipack contiene una cover dei Black Sabbath ("Symptom of the universe"), un brano live ("Kaiowas"), ed una esperimento tecno/jungle ("Chaos B.C.")

Fondamentale!!

(Recensione di Magico Vento)

VOTO 8

TWOLFF

Commenti: 6 (Discussione conclusa)
  • #6

    cadaveria83 (giovedì, 10 gennaio 2013 23:54)

    lo ascolto sempre con piacere e uno dei miei album preferiti

  • #5

    serpa (giovedì, 10 gennaio 2013 01:30)

    Al di là della qualità della composizione, comunque molto buona, l’idea è geniale. Le percussioni sono potenti, i ritmi tribali si sentono e sono rozzi, viscerali e primitivi. Come mai lo saranno delle canzoni death o thrash, due generi che comunque amo e ascolto con piacere.
    Questo disco ti fa venire voglia di metterti in perizoma ed andare a caccia nella foresta amazzonica con lancia ed arco.

  • #4

    Dany75 (mercoledì, 09 gennaio 2013 23:47)

    concordo grande album

  • #3

    sven (mercoledì, 09 gennaio 2013 22:33)

    cosa vedo! quale magnificenza!

  • #2

    TWolff (mercoledì, 09 gennaio 2013 21:58)

    Punta di diamante dei Sepultura, niente da ridire ad Arise e Beneath the remains che sono album magnifici, ma come dice il mio socio Rexor, Roots è unico nel suo stile. Formidabile e, non lo si deve negare, innovativo.

  • #1

    rexor (mercoledì, 09 gennaio 2013 20:57)

    altro punto di riferimento della scena metal.roots dei sepultura,un album originale e allo stesso tempo unico.potente,tecnico e molto innovativo.un lavoro che ha fatto e fa tuttora storia.

L'ennesima rappresentazione teatrale dei dannatissimi techno gabba\grinders\deathers (avete capito bene) australiani The Berzerker, vede come atto finale lo “spogliarsi" delle proprie paure (leggi maschere alla Slipknot) con conseguente rivestimento di durissime e cervellotiche lesioni sonore. L’Iron Dragon di Melbourne slega finalmente la propria immagine dalla mera e banale apparizione scenica per candidarsi come erede naturale (e tecnologico) dei maestri Carcass. Un misto innaturale dei Gadget di Remote, Nasum, Agoraphobic Nosebleed e primi Brutal Truth. Un grind non sopra, ma completamente fuori dalle righe. Dicevo techno\grinder. L'elettronica dell’omonimo debutto viene messa in relazione alle sfuriate grind di Dissimulate per un risultato assolutamente devastante. L'attacco dei The Berzerker e' frontale, dettato da input pulsanti di techno-industrial, una batteria (David Gray e’ presente nei guinnes dei primati…) settata per far ricordare le movenze di una drum machine e serratissimi tappeti di sporco industrial. Doppie voci growling/screaming, su un filtrato radioattivo a meta’ fra il cibernetico e il delirio sonoro terreno. World of Lies rappresenta il mondo di menzogne che i The Berzerker sono pronti a spazzare via con concreti incubi lisergici. Un grind evoluto e tecnologico, ricco di sfumature interessantissime, come il ripescaggio degli intro tanto di moda in passato (spoken words di film B-Movie e notiziari) e una track doom-industrial-ambient (e chi piu' ne ha piu' ne metta) della durata di 20 minuti! (Farewell). Quasi impossibile arrivare alla fine sani e razionali. Si passa da Commited To Nothing, alla serratissima All About You, per giungere a pezzi impazziti come Burn The Evil, World Of Tomorrow e As The World Waits. Il resto e’ un semplice e feroce brutal-cyber-grindcore, alias grind contaminato… e se non avete ancora deciso come devastare il vostro cervello, allora questo disco potrebbe darvi qualche suggerimento…         voto 8  by  rexor  

Commenti: 1 (Discussione conclusa)
  • #1

    Dany75 (martedì, 08 gennaio 2013 22:31)

    suociu nata mazzata peggiu di mortician , grandi berzerker

 

Mi trovo qui, a recensire questo album ma più in generale questo gruppo che definire fenomenale è direi assai riduttivo.Consideriamo il fatto che sono italiani,gia' questo e' un punto a loro favore, comunque,.... mettersi le cuffie ed ascoltare questi pezzi significa abbandonare la materialità del nostro quotidiano vivere ed entrare in un mondo   fatto di tecnica, originalità ma più in generale di quel qualcosa che non si riesce ad esprimere con le semplici parole. E' una esperienza unica ascoltare i Controsigillo, qualcosa che è impossibile tradurre a parole.  parlando con il singer  Enrico Pulze, il quale mi ha dato alcune dritte sul genere che propongono, che va dal progressive al trash e chi piu' ne aha piu' ne metta, bhe! devo ammettrere che ero scettico sulle potenzialita di questa band, ma questo prima di ascoltare la loro ultima fatica.Mi rivolgo a  noi comuni mortali che in certe rare occasioni non siamo in grado di attingere al ricco vocabolario delle parole per rappresentare ciò che abbiamo vissuto, perchè ogni parola è fuori luogo o riduttiva. I Controsigillo appartengono allo stessa famiglia di gruppi quali difficili da etichettare pertanto difficili da capire  ma oserei direche la loro musica si allinea per composizione e testi a quella rivoluzione musicale nata molti anni fa che hanno portato rivoluzione nei modi di fare il metal. I Controsiggillo non hanno avuto la stessa fama di altri gruppi per vari problemi strettamente personali che hanno portato da prima un cambiamento della formazione e addirittura un momentaneo allontanamento dalla scena metal, vista la bravura, mi sento onorato di recensire quello che ritengo uno dei migliori loro album. la band entra in studio per incidere "Controsigillo", questo nuovo lavoro in cui la batteria viene suonata da Loris Poletti. Ad inizio 2012, la Band ritorna nella sua formazione originale, pronta a lanciarsi in nuove avventure musicali , l'album si apre con un Intro poi man mano,Crop circles , Infected oxygene ,Arabian chaos (2012 version) ottimi pezzi suonati con stile e bravura, fino ad arrivare a: Lupin3 e il cubo di Rubik  per me uno dei pezzi migliori dell'album, a chiude , Infected oxygene (live) veramente arrangiata benissimo. Il lavoro è composto da 7 brani più intro e il pezzo  live. La formazione  ENRICO PULZE   all lead and backing vocals, il quale saluto calorosamente  sperando di intervistare al piu' presto , SIMONE COSTADONE lead and Rhythm guitar, synth,DAVIDE  MANNA lead and rhythm guitar,SIMONE CAPPATO  bass   (now on Drakkar e Mortuary Drape),LORIS POLETTI drums (except live track),SALVATORE MANGO drums on live track. cosa aggiungere se non un continuate cosi' ragazzi voto 8,5

Dany75 

 

Commenti: 2 (Discussione conclusa)
  • #2

    Dany75 (mercoledì, 09 gennaio 2013 21:44)

    vai nelle news di horrorscape troverai il link dove scaricarlo

  • #1

    sonya (mercoledì, 09 gennaio 2013 18:49)

    come faccio ad avere una copia del loro cd???

Will Rahmer e Roger Beaujard, due nomi da amare o da odiare. Non ci sono mezze misure per i Mortician, la loro musica è un trattore con i cingoli da carro armato con una marmitta fracassata a colpi di badile (sempre se su un trattore/carro armato ci si può montare una marmitta!). “Domain of Death” è l’ennesimo capolavoro Brutal Death Metal di questo combo Newyorkese ormai simbolo di una generazione demenziale e video “Troma” dipendente. Un lavoro maturo e devastante, le produzioni dei vari cd è sempre cresciuta, sempre alla ricerca di sonorità sempre più strabordanti e geniali. Nelle diciassette tracce di “Demain of Death” c’è tutto quello che l’umanità vuole trafugare in se stessa, tutta da demenzialità e l’irrequietezza che non tutti vivono liberamente, la paura di non poter apparire a tutti i costi belli ed interessanti. I Mortician sono così, prendere o lasciare, vivere o morire. Qui non si parla solo di musica, ma di un’attitudine alla vita senza preconcetti, guardare e scoprire, odiare ed amare. Si inizia con “Blood of Evil” che parte con una intro orrorifica e sanguinosa, ed ecco che il basso macigno entra in scena, suoni di chitarra ultracompressi, batteria elettronica serrata ed inumana all’eccesso, il tutto condito da una voce sorprendentemente gutturale (secondo me canta sotterrato sotto terra). Devo dire che i campionamenti sono sempre ben curati ed azzeccatissimi, questa volta si è andato a scavare anche nel cinema di Dario Argento, fino al cult di tutti i tempi “L’armata delle tenebre”, molto godibili. All’interno del lavoro ci sono due cover, Pulsating Protoplasma dei Pungent Stench, e Extra Uterine Pregnancy dei Disastrous Murmur, completamente scarnificate e rese irriconoscibili. L’insieme delle tracce risulta compatta, non ci sono pecche di esecuzione e cali di tensione, ci sono riff tiratissimi alternati a riff catramosi e lancinanti, e ci sono delle sperimentazioni sonore soprattutto in “Telepathic Terror” e “Mutilation of the Human Race”, dove ci sono elementi dissonanti e strutture minimali. Il titolo più divertente risulta “Dr. Gore”, una sorta di trattato macabro sulle bizarre creazioni di questo simpatico personaggio. I testi come al solito risultano uno sberleffo per chi crede che l’orrorifico debba essere necessariamente legato alla musica estrema. Altra nota gradevole è la copertina, sempre curata dal maestro Wes Benscoter, un disco completo, trentasette minuti di puro divertimento sonoro. Non chiudete gli occhi, guardatevi intorno, e scoprite quello che hanno da dirvi i Mortician, buon ascolto!.                                                               Voto 8 by Rexor    

Commenti: 4 (Discussione conclusa)
  • #4

    Dany75 (mercoledì, 09 gennaio 2013 21:43)

    vai nelle news di horrorscape troverai il link dove potrai scaricarlo

  • #3

    Twolff (martedì, 08 gennaio 2013 14:25)

    Socio Rexor questa è una vera e propria palata nello stomaco. A dir poco massacrante.

  • #2

    vomit (lunedì, 07 gennaio 2013 23:31)

    Sicuramente è la cosa più brutale che abbia mai ascoltato, e sì che di brutal death metal ne ho ascoltato parecchio...
    Penso proprio che i MORTICIAN siano il gruppo più brutale del pianeta.

  • #1

    dany75 (lunedì, 07 gennaio 2013 23:08)

    eaki' cia' minatu mo!!!

La consacrazione definitiva per gli Aborym avviene con il loro terzo album,With No Human Intervention (titolo scelto dall'ex-batterista degli EmperorBard Eithun, che ha collaborato anche per alcuni testi), loro personale capolavoro e vertice compositivo.
La maturazione stilistica a cui gli italiani giungono permette di scrivere un lungo capitolo di black metal futuristico e psicotico, dove i tradizionali stilemi violenti e ossessivi del genere vengono abbinati all'industrial più nichilista e al noise digitale per essere posti al servizio di inquietanti atmosfere post-apocalittiche a rappresentare il lato più malato e decadente della società urbana - con le sue degenerazioni, le alienazioni mentali, senza futuro per la sua stessa tendenza ad auto-distruggersi.

La drum-machine, per quanto magari possa essere meno "intensa" di una batteria vera, funge da catalizzatore per l'aura del disco, rendendola ancora più fredda e meccanica, così come tutta l'elettronica disturbante di contorno, i tappeti di tastiera epici e le infiltrazioni industrialoidi, contribuendo in generale ad edificare un cupo scenario disumano e disumanizzante.
I puristi del black metal storcerebbero di sicuro il naso, ma ciò che conta non è il mezzo quanto il risultato, e gli Aborym in questo sono fedeli nel proporre composizioni da incubo e che "testimoniano il male", solo lo fanno traslando il tutto nell'era non solo post-industriale ma digitale e impiegando quindi il mezzo espressivo del black metal per descrivere un mondo "alieno" fatto di incubi tecnologici e di un male che, nella loro concezione, la società occidentale attuale si infligge da sola con i propri eccessi e le proprie deviazioni.
E' quindi un disco terrificante, freddo nella sua accezione spaventosa, cinico e ossessivo, puramente in linea con l'essenza profonda del black metal pur modificandone l'estetica.
Black metal "digitale", in pratica, erede musicale delle innovazioni già apportate da gruppi come i Mysticum e ideologicamente vicino ad altre formazioni un po' più lontane come gli Obituary di World Demise o in parte i Fear Factory con i loro concept sulle macchine.

Dopo una Intro tutto sommato trascurabile, l'album parte subito al fulmicotone con la titletrack che non a caso è posta all'inizio per essere il biglietto da visita perfetto dell'album: veloce e bruciante, ma anche aperta a tecnicismi di chitarra (atipici nel black metal) suonati con frenesia per dare una sensazione di confusione mentale e a tappeti epiche perfette per preannunciare un'imminente catastrofe che il vocalist Attila Csihar urla con malignità. Su quest'ultimo punto è però la successiva U.v. Impaler ad essere ancora più estrema, con l'opening più angosciante di tutto il disco, successive distensioni melodiche che rievocano uno scenario distrutto ed inquinato, esplosioni industrial-black a mostrare un mondo meccanico e robotico, senza più alcuna umanità.
Humechanics-Virus esalta la commistione di elettronica e black metal con filtri vocali disturbanti, breakbeats che fanno capolino ogni tanto, samples industriali e riff violenti e granitici.
La parentesi elettronica di Does Not Compute è ad opera di Matt Jarman dei britannici Void, ma non è nulla più che un semplice esperimento jungle/ebm che fa da temporanea pausa alla violenza del disco. Si riprende quindi con il binomio successivo (la più dimmuborgiriana The Faustian Spirit of the Earth e l'industrial metal/black fragoroso di Digital Coat Masque), sempre in linea con le coordinate generali dell'album, anche se un po' meno elettroniche, in ogni caso micidiali.
Tuttavia, la successiva suite di quasi 10 minuti The Triumph è forse l'episodio più allucinante e fuori dagli schemi dell'album, con un'introduzione terrificante, sviluppi chitarristici duri ma melodicia sfocianti in una distensione atmosferica malinconica (ed un assolo virtuoso melodico da hard rock anni '80) a cui fa poi seguito un intermezzo di suoni e campionamenti da giostra che dipingono un angosciante scenario di disordine mentale. E proprio come in questo caso c'è poi una repentina esplosione di furia e violenza, come un improvviso scatto di pazzia (forse quella che gli Aborym vedono nel mondo attuale?), lasciando poi che tutto venga concluso da una lunga coda elettronica che fa ricorso ad un sampling "particolare".
Si ritorna sullo standard compositivo, pur comunque ad alti livelli, con i pezzi successivi: Black Hole Spell, black metal glaciale e bruciante al tempo stesso maggiormente in linea con i canoni del genere, Me(N)Tal Striken Terror Action, martellante secondo episodio di uno dei brani diKali Yuga Bizarre, e Out of Shell, dalla chiusura sintetica suggestiva e particolarmente inquietante con la sua combinazione di magmatici muri di chitarra distorta, tastiere malefiche e intensi beats cadenzati. Out of the Shell sfocia poi immediatamente in Chernobyl Generation, break ebm/techno ossessivo ed alienante, con alcune delle tastiere più efficaci per le atmosfere da incubo, che critica l'attuale generazione a detta del gruppo falsa nonché "figlia della radioattività e del grigiore" e "di plastica", come affermato in un'intervista.
Segue quindi la breve esplosione di incalzante black metal sintetico diThe Alienation of a Blackened Heart e, infine, l'ancor più breve noisy-ambient-ebm di Automatik Raveolution Satan.

L'album vanta ospiti da varie band: oltre ai già citati Void, anche i Timewave Zero e Nattefrost dei Carpathian Forest per alcune backing vocals e quelle principali del penultimo brano.
Successivamente alla sua pubblicazione, inoltre, Attila lascia il gruppo per riunirsi ai Mayhem, mentre il chitarrista Set Teitan decide di trasferirsi neiDissection. Il batterista degli Emperor, Bard Eithun, oltre a scrivere il testo della titletrack, avrebbe suonato la batteria in alcuni live, per poi unirsi definitivamente al gruppo e rimpiazzare la drum-machine dando così una svolta allo stile del gruppo.

Voto 9   by Rexor

 

Commenti: 2 (Discussione conclusa)
  • #2

    sonya (lunedì, 07 gennaio 2013 15:37)

    ci picchiate duro hehehehehe grande disco :)

  • #1

    Sven (domenica, 06 gennaio 2013 22:02)

    molto tosto voto azzeccato raga'

Il padre di Michael Andreas Helmuth Ende, il pittore surrealista Edgar Ende, aveva un'attività artistica inizialmente di successo, che però fu costretto a sospendere nel 1936 a causa dell’imporsi del regime nazista. 
Gli anni precedenti la guerra, per Michael, furono anni di crescita e studio, funestati, nel 1937, dalla morte di un suo intimo amico, Willie: sulla sua immagine lo scrittore modellò, in seguito, l'aspetto di Bastiano, il protagonista de La Storia Infinita.

Narnia è il nome latino della città italiana di Narni, situata nella Provincia di Terni e così chiamata dal 299 a.C.. La formazione di assistente universitario ad Oxford e professore a Cambridge aveva portato C.S. Lewis a studiare la letteratura classica e ad assorbirne i contenuti, la storia e la geografia alla base di essi. Sebbene i romanzi che scrisse in seguito contengano allusioni all’ideologia cristiana, una lettura allegorica di questi libri potrebbe risultare impropria. Lewis, convertitosi da adulto al cristianesimo, incorporò concetti teologici cristiani nelle storie per renderli comprensibili ai bambini. In questo Lewis ebbe successo: Le Cronache di Narnia sono diventate una lettura favorita per bambini ed adulti.

Questi sono solo un paio di spunti atti a comprendere meglio l’universo che sta alla base diImaginations From the Other Side.
I temi trattati nel disco rispecchiano l’umore di Hansi Kursch all’alba del 1995: cupi, pesanti, incentrati sul vicendevole rapporto tra violenza umana, fuga o abbandono verso un Altro Mondo, sacrificio in nome di un ideale.
Tutti i libri più o meno citati da Hansi sono infatti grandi allegorie della vita: Il Mago di OzPeter PanIl Signore degli AnelliAlice nel Paese delle MeraviglieLa Spada nella RocciaIl Nuovo Testamento.
Il sapore alla base di essi, come dicevo, è quasi sempre amaro e drammatico. E così pure lo sono le musiche create per questo immenso lavoro targato Blind Guardian: a partire dalla stessa title track Imaginations From the Other Side, l’atmosfera si fa oscura e le schitarrate pesanti. La velocità è spesso elevatissima, come vuole la tradizione del power puro, ma nulla è lasciato al caso, ed ogni velocità, ogni riff sono atti a comunicare una particolare emozione descritta dalle liriche: siamo insomma lontani anni luce dall’happy metal dei loro connazionali. 
Per i Blind Guardian dunque la Musica comincia a farsi Teatro (drammatico): è una tendenza che continuerà (ingigantendosi) con Nightfall in Middle Earth e (scemando) con A Night at the Opera.
Se i testi sono curati, gli arrangiamenti di Imaginations From The Other Side raggiungono dei livelli impensabili fino a qualche anno prima: dal grande dialogo tra acustico ed elettrico (I'm AliveMordred's Song) alle armonie di chitarra (ancora una volta Mordred's Song, probabilmente il pezzo migliore del lotto), tutto è perfetto. 

Il 1995 resta pertanto un anno cruciale per la band, e Imaginations From the Other Siderappresenta probabilmente il picco più alto della sua arte, a metà tra la bontà dei lavori passati, di sviluppo più che di studio, e lo sperimentalismo degli anni a venire. A tutti gli effetti un capolavoro indimenticabile.
N.d.R.: Una menzione particolare va anche all’eccelso lavoro grafico in prima e quarta di copertina, a cura di Andreas Marschall

Voto 8. TWolff

Commenti: 2 (Discussione conclusa)
  • #2

    tyu (lunedì, 07 gennaio 2013 23:07)

    Il primo commento per il mio disco preferito.
    Tenendo conto di tutte le emozioni che mi ha regalato non posso che dargli il massimo dei voti.
    Pura magia.

  • #1

    XOMARA (sabato, 05 gennaio 2013 00:43)

    MOLTO PIACEVOLE COME DISCO ANCHE SE LA LORO DISCOGRAFIA E VASTA RESTA SEMPRE UNO DEI MIGLIORI LAVORI

Oggi mi cimento a recensire questo meraviglioso disco dei Running Wild.

Devo prima di tutto dire che la fama di questo gruppo tedesco, è stata purtroppo eclissata dalle bands più famose del panorama power tedesco; ma state certi che i "Corridori Selvaggi" non hanno proprio niente da invidiare a queste. Capisco che ci sono i Blind Guardian, i Gamma Ray e gli Edguy che oltretutto piacciono tanto anche a me; però…

Comunque i Running Wild sono il gruppo Power/Heavy metal formato dallo zio Rolf Kasparek (in arte Rock n'Rolf ), che si distingue da tutti gli altri complessi per l'immagine che più bella e azzeccata non si può: loro sono i "Pirati del Metal" infatti li vediamo nei live e nei videoclip in abiti da veri e propri corsari e con fuochi che divampano nel palco. Questo gruppo ha avuto innumerevoli cambi di formazione ma che si arriva a stabilizzare solo a metà degli anni novanta. La formazione del gruppo per "Death or Glory" (la più qualitativa) vede Rock n' Rolf al canto e alla chitarra, Majk Moti alla chitarra e alle seconde voci, Jens Becker al basso e alle seconde voci e Iain Finlay alla batteria.

Andiamo al disco:

si comincia con la burrascosa "Riding The Storm" che dopo un lungo intro fatto da 6 note a ripetizione, ciregala una vera e propria scarica di adrenalina grazie ai ritmi e alla voce tagliente di Rolf. La potente "Renegade" con il suo sound fa immaginare i 4 pirati in giro per i mari nella loro nave a depredare altre imbarcazioni. "Evolution" è davvero inquietante in cui regnano duelli fra le due possenti chitarre. "Running Blood" è una veloce, melodica, epica cavalcata contro il tempo. "Highland Glory" è 1 ottimo pezzo strumentale ritmato molto bene da basso e batteria in cui il protagonista è la chitarra e ascoltando questo pezzo, immagino me stesso con quella chitarra in cima ad una montagna vicino una costa che suono come un forsennato.

"Marroned" è una signora canzone fatta da assoli veloci e magici. "Bad To The Bone" è un grande scintillìo di chitarre(vedete il videoclip). "Tortuga Bay" è un altro pezzo veloce che sembra quasi richiamare i suoni di "Marroned". La nona é la title track che è un pò più oscura rispetto alle altre ma è comunque accettabile. "The battle of Waterloo" ricrea l'ambiente di quella battaglia con una opportuna cornamusa e tutto il resto. L'ultima è "March On"; una semplice ma incisiva marcia.

Senza giri di parole: questo è il miglior disco dei Running Wild!

voto 8

Dany75

 

Commenti: 6 (Discussione conclusa)
  • #6

    BlackDome (martedì, 08 gennaio 2013 00:56)

    L'ho preso completamente random (bè dai ad essere onesti ho ascoltato i primi 20-25 secondi di Riding the storm) e non me ne sono mai pentito; non sono un grande appassionato di power (anche se a mio avviso questo album non ha molto a che vedere con tutto il filone power anni '90) e infatti questo è uno dei pochi album di questo genere che riesco ad ascoltare fino in fondo apprezzando ogni traccia.

  • #5

    cadaveria83 (venerdì, 04 gennaio 2013 21:45)

    si si uno dei miei preferiti, da non sottovalutare port royal pero'....

  • #4

    sonya (giovedì, 03 gennaio 2013 01:45)

    bellissimo disco

  • #3

    rexor (mercoledì, 02 gennaio 2013 21:16)

    ah ah ah......tra i due litiganti il 3 gode.due lavori indubbiamente importanti,ma io apprezzo moltissimo under jolly roger.altro grande album dei running wild.

  • #2

    Dany75 (mercoledì, 02 gennaio 2013 21:08)

    socio indubbiamente anche port royal e' un capolavoro, ma per me death or glory , e' la punta di diamante dei running

  • #1

    Twolff (mercoledì, 02 gennaio 2013 20:29)

    Grandissimo album socio Dany75, voto meritato ma per me il miglior album che abbiano mai composto è Port Royal.

2003, una band svedese, la cui costante è Johan Edlund, pubblica la propria resurrezione artistica sotto forma dell'ennesima trasformazione stilistica.

I Tiamat cominciano col nome di Treblinka (nome di un campo di sterminio nazista) suonando Black Metal. Pochi anni dopo modificano il proprio nome in Tiamat (Divinità sumera del caos) e attraversano una fase Death, poi Doom/Death Metal. Sconvolgono i propri fan con "Wildhoney", vero e proprio punto di massimo o di minimo come si può desumere dalle tante recensioni presenti. Il genere diventa Gothic Metal, per poi attenuarsi in un Rock sempre più tendente al Pop, un po' la fine dei Paradise Lost insomma. Personalmente ritengo "Wildhoney" la pietra miliare della band, oltre che del genere. Per il resto c'è il vuoto intorno a questa band che non aveva fatto nient'altro di rilevante.

Nel 2003 esce 'Prey', e dal nulla viene fuori Il miglior connubio tra musica e amore mai realizzato. Musicalmente parlando è Gothic Rock con leggerissime influenze elettroniche. Ma si tratta di una serie di poesie d'amore di rarissima bellezza accompagnate da una voce oscura, calda e avvolgente. Non c'è grande tecnica nelle scelte dei riff e delle tastiere, ma molta passione e a volte sembra di essere scaldati da una presenza invisibile, impalpabile ma estremamente penetrante… "Cain" introduce con un cinguettio e un lieve arpeggio in questo mondo di ombre e presenze e nonostante l'abisso che c'è con 'Wildhoney', si nota la volontà di richiamare la stessa atmosfera dell'intro di 10 anni prima. Scalta commerciale, stilistica o casuale che sia, l'efficacia c'è e c'è il trasporto attraverso le campane delle tastiere, i riff molto lontani dal metal ma sempre massicci e presenti, le linee di basso insistenti… "Cain" si conclude con "Ten thousand Tentacles", seconda traccia. Il trasporto si materializza in sole sensazioni di tatto, mai immagini, solo buio. "Wings Of Heaven" è un altro esempio di amore suonato e concretizzato attraverso parole enfatizzate dall'espressività di Edlund: The wings of heaven are descending/The touch of her naked skin's amending/The skies will collide/Only for a little while/And it will take us trough the night. 

"Love In Chains" fa parte delle canzoni volutamente più "cattive", forse per non perdere del tutto quell'aspetto di metallari inquietanti che tanto fa vendere al giorno d'oggi. La canzone funziona e non è affatto spiacevole se la si sente senza pensare a ciò che può averla partorita. Quasi a contrastare, la ballata "Divided" trasporta ancora attraverso rarefatti veli vellutati verso sensazioni di trepidante attesa e di desiderio. La voce coinvolgente di Edlund si completa con un'ottima scelta vocale femminile che rende il tutto più reale e significativo, ancora attraverso un testo di rose recise che non vogliono appassire… Emblematica la tragica conclusione: Our love's dead by dawn/And as the day begins/The sun is soothing my skin/And I am divided/I am divided/For love/I have to say/That all of this time/I waited for someone like you/Your are my dream… 

"Carry Your Cross An I'll Carry" presenta un altro duetto in cui stavolta è protagonista la voce femminile. Ancora c'è un chiaro contrasto con la traccia precedente. E' un'altra canzone meravigliosa, ma la domanda che sorge spontanea è perchè questi accostamenti? Sono casuali o semplicemente non si vuole dare continuità per poter accontentare più pubblico possibile? Ma non importa alla fine, perchè l'obiettivo di arrivare fin dentro al cuore viene raggiunto e non riesco a disprezzare un lavoro che di buono ha quasi tutto. "Triple Cross" è un'altra estensione della traccia precedente, affidata al sinth e alle tastiere. "Light In Extension" è ancora una volta una svolta di umore, e troviamo un Edlund più rauco che serpeggia tra chitarre compatte e un ritmo decisamente più sostenuto. Non mancano però momenti di assoli e un ritornello orecchiabile. "Prey" sembra l'unica traccia presa da 'Wildhoney', ed è l'unica alla fine che eguaglia il livello irraggiungibile del capolavoro. Molto inquietante e psichedelicaoscura e tetra in quei rintocchi d'orologio.

Stavolta "The Garden Of Heathen" è l'intro alla successiva e anticipa il tema principale di "Clovenhoof", altra canzone orecchiabile e tipicamente strutturata per un ascolto semplice. Eppure non è male, l'efficacia delle strutture melodiche raramente è così forte. Poi dal nulla spunta "Nihil", che ricorda moooooolto lontanamente il passato Doom dei Tiamat. Non viene abbandonato lo stile principale, quello di fare musica semplice ma coinvolgente, solo che in questa dodicesima traccia pare vengano attraversati tutti i principali momenti stilistici dei Tiamat! Curiosa. La conclusione è una ballata accompagnata da un inquietante organo e attraversata da strutture tipicamente psichedeliche e da inserti vocali presi da film. 

Che dire, alla fine è un ottimo disco fatto da canzoni tra le più belle mai scritte e cantate. Edlund se la tira parecchio e questo lo rende abbastanza antipatico, ma non riesco a negare quanto i suoi componimenti riescono ad incunearsi direttamente nell'anima senza passare per sensazioni fisiche forti.

TWOLFF . VOTO 8,5

Commenti: 1 (Discussione conclusa)
  • #1

    Fonix (giovedì, 03 gennaio 2013 20:58)

    BELLO VERAMENTE BELLO

Ci siamo finalmente, qui si parla di storia ragazzi.
Ozzy cercava nuovamene un chitarrista con cui collaborare, e alla sua audizione si presentò un giovane alto, capelli lunghi e biondi cascanti sul viso, appena diciannovenne. Parlo di lui, di uno dei più bravi chitarristi metal ancora oggi in circolazione: Zakk Wilde.

Nel 1988 pubblica questo album che fa un grande cambiamento dai suoi album-rock precedenti. Tra le canzoni più belle troviamo sicuramente "Miracle Man" (unica canzone di quest album che Ozzy poi porterà avanti anche nei suoi live e concerti successivi, a parte in "Just Say Ozzy"), "Bloodbath In Paradise""Fire In The Sky" (davvero molto bella e profonda, quasi commovente) e "Tatooed Dancer". Discrete, invece,"Devil's Daughter""Crazy Babies""Breaking All The Rules""Demon Alcohol" e "Hero". Nella versione rimasterizzata troviamo inoltre la b-side e ballad "Liar", poco sensata e convincente, e la versione live di"Miracle Man".

Questo disco è stata una vera rinascita per Ozzy, e il loro affiatamento si è visto subito. Inutile decantare la bravura di Zakk e il suo tocco unico. da sottolineare la canzone citata sopra"Miracle Man" , per la melodia e per il riffing sfizioso, oltre ai soli di chitarra per quali nei confronti di Zakk, dobbiamo solo inchinarci.
 scontata come ballad, ma questo è un piccolo dettaglio personale, dato che su più fronti ho sempre sentito parlare di questa come una gran bella canzone.

In definitiva il nostro madman sul finire degli anni '80 non ci ha deluso e si e' mantenuto in perfetta forma, ma soprattutto ha fatto conoscere al mondo uno come Zakk Wilde, che certo non poteva desiderare di meglio come esordio, e ci ha regalato l'ennesima perla del suo talento. poche parole per dargli 8,5.

Dany75

 

Commenti: 5 (Discussione conclusa)
  • #5

    verdena (sabato, 22 dicembre 2012 00:00)

    adoro particolarmente questo cd di ozzy, zak e' come sempre in gran forma

  • #4

    claudia (mercoledì, 19 dicembre 2012 23:34)

    bellissimo lo adoro

  • #3

    6seven6 (mercoledì, 19 dicembre 2012 00:29)

    bellissimo capolavoro dello zio ozzy

  • #2

    sonya (martedì, 18 dicembre 2012 01:39)

    grande ozzy, il padre del metal

  • #1

    TWolff (lunedì, 17 dicembre 2012 21:55)

    Album molto significativo a mio parere uno dei più belli della intera carriera del grande Ozzy. Ottima scelta socio Dany75, concordo con il voto.

Spiritual Black Dimensions è una gemma di cui troppo spesso ci si dimentica quando si parla dei Dimmu Borgir.
Questo lavoro riesce nel difficile compito di fare da seguito ad Enthrone Darkness Triumphant senza sfigurare e senza ripetersi sterilmente in ciò che aveva reso grande il predecessore.

L'apertura è affidata a REPTILE brano che mette subito in primo piano le tastiere di Mustis e le vocals di Shagrath che mostra tutte le sue notevoli doti di cantante in grado di sorprendere anche con il cantato pulito nel ritornello.
Segue la devastante prova del batterista Tjodalv nella stupenda BEHIND THE CURTAINS OF NIGHT PHANTASMAGORIA.
DREAMSIDE DOMINIONS è quasi commovente nel suo mettere in contrasto il malinconico e romantico sound delle tastiere con la violenza delle chitarre e della voce di Shagrath, creando così qualcosa di maestoso e anche uno dei loro migliori brani di sempre.
Quarta traccia è UNITED IN UNHALLOWED GRACE ancora una volta maestosa senza perdere peraltro il suo impatto diretto e violento. 
Un paio di stupendi assoli di chitarra caratterizzano la successiva THE PROMISED FUTURE AEONS.
Il disco prosegue trascinando l'ascoltatore in un crescendo finale che parte con la lunga THE INSIGHT AND THE CATHARSIS, che contiene uno degli intermezzi di tastiere più belli dell'intera discografia dei Dimmu, passando per GROTESQUERY CONCEILED.
Chiude infine la stupenda ARCANE LIFEFORCE MYSTERIA che inizia relativamente lenta e inesorabile nel suo incedere salvo esplodere accompagnata dall'ennesima fenomenale prova di Shagrath, nel finale.

In definitiva un'opera da avere assolutamente se non altro perché è uno dei dischi più belli (inferiore a mio parere solo ad Enthrone Darkness Triumphant) del gruppo norvegese e del black sinfonico in generale.

Voto 9. By Rexor

Commenti: 3 (Discussione conclusa)
  • #3

    ans (venerdì, 21 dicembre 2012 01:21)

    greath big job!

  • #2

    TWolff (lunedì, 17 dicembre 2012 21:58)

    Sempre piu' grandi socio!

  • #1

    dany75 (lunedì, 17 dicembre 2012 21:52)

    bella idea me gusta compa twolff

Scoprii i Therion con questo album, predecessore del cavolavoro Deggial.

Non è facile recensire i lavori di questa formidabile band. 

C'è innanzitutto da dire che la loro musica ha la capacità di stupire alla grande. La raffinatezza, il fascino, le composizioni complesse e liriche fanno sì che ti trascinano in una dimensione nuova e assolutamente piacevole.

Già con Theli il signor Christofer Johnsson si era affermato come genio compositore, con questo Vovin, direi che ha addirittura migliorato e maturato la sua genialità.

La fantastica fusione di momenti di tristezza e nostalgia orchestrali con riff di chitarre potenti, decisi e ben fatti, fanno di questo lavoro un opera direi imperdibile.

Ogni singola nota è di una precisione millimetrica, tutto è al posto giusto e non esistono eccessi di alcun tipo.

Questo Vovin è un puzzle intricato di sonorità di un'arte finissima e davvero maestrale. Un mix di generi musicali diversi tra loro che spaziano in orizzonti eteree i quali solo un genio come Johnsson può creare.

Sinceramente ti senti intrappolato dalle musicalità di questo lavoro che una volta iniziato l'ascolto non si riesce a interromperlo. Sin dalla opener track nasce questo forte desiderio di prolungarsi fino alla fine senza mai annoiarsi. Basti citare solo le formidabili Clavicula nox e Black Diamonds.

Da amante dei Therion, non posso non consigliare questo album perchè apre le porte ai futuri capolavori di questa eccezionale band.

Voto 9 (pieno).

TWolff

 

Commenti: 1 (Discussione conclusa)
  • #1

    xan (lunedì, 17 dicembre 2012 21:38)

    altro capolavoro dei therion molto aggraziato come suono

Formatisi nell'88 a Torino gli Opera IX cominciano la loro carriera sfornando tre capolavori: il cupissimo e ancora acerbo "The Call Of The Woods", il più melodico e pagano "Sacro Culto", e l'oscuro ed esoterico"The Black Opera: Symphoniae Misteriorum In Laudem Tenebrarum". Di quest'ultimo mi accingo a parlare, non solo in quanto uno dei miei album preferiti, ma anche perchè ritengo sia il migliore della loro carriera. Il loro sound è caratterizzato da un mix di doom, black e death metal che verrebbe più comodo definire "occult metal", arricchito da cori, chitarre acustiche stile folk e tastiere sinfonicheggianti. Ma il quadro non sarebbe completo senza una voce capace di spingere l'anima a trascendere verso più alte sfere: obbiettivo perfettamente raggiunto grazie alla malefica voce di Cadaveria, vera maestra nel destreggiarsi tra i suoi screams concedendosi talvolta qualche intervento pulito (e che purtroppo dopo quest'album lascerà il gruppo assieme al batterista Flegias).

Il cd in questione è un concept, riguardante il percorso verso la conoscenza suprema di un guerriero spirituale, che si dispiega tramite la schiusura di sei sigilli (qui rappresentati dalle canzoni stesse). Essenziali a tal proposito i testi che traendo a piene mani da libri di occultismo e magia cerimoniale costituiscono delle vere e proprie invocazioni. Da segnalare la lunghezza delle songs (da un minimo di 6 minuti circa a 10 e mezzo) che tuttavia non scadono mai nella prolissità. Una solenne litania ci introduce a "The First Seal" ma si traduce presto in un feroce scream supportato da laceranti chitarre che ci stordiscono con la loro monotonia per poi lanciarsi in imponenti cambi di tempo. "Beyond The Black Diamond Gates" invece, con la sua cadenza misticheggiante, ci da l'impressione di assistere ad un vero rituale esoterico, anche grazie al contributo delle bellissime tastiere e dei cori che donano solennità. Un fulmine a ciel sereno "Carnal Delight In The Vortex Of Evil" dove pur nella sua violenza ci sembra di respirare incenso in un tempio antico e dimenticato. Break di chitarra acustica accompagnano la cantante intenta a declamare blasfemie su un cupo altare. "Congressus Cum Daemone" è la traccia più lunga, quivi tutti gli elementi del sound degli Opera IX convergono per creare un arcobaleno di atmosfere cupe e infernali. Ascoltatela se volete sapere cosa i romantici intendessero per sublime. È la volta poi di"The Magic Temple", intermezzo che si apre con crepitii di fuoco, rumori di spade, sussurri per lasciar spazio a un'invocazione recitata dalla cantante in italiano che esplode in un urlo finale e nei riff di chitarra. Un pezzo stupendo. "The Sixth Seal" non fa altro che riepilogare le caratteristiche principali delle tracce precedenti. Chiudono inquietanti sospiri che lasciano spazio alla bonus track, la cover dei Bauhaus"Bela Lugosi's Dead". Devo dire che non mi è mai piaciuto il pezzo originale, mentre qui viene reso alla grande. Grazie anche al canto principalmente pulito, la canzone è decisamente più melodica rispetto al resto del disco, rivelandosi un finale davvero azzeccato.

Anche dal punto di vista grafico il cd non delude grazie ad una copertina accattivante e a un libretto dalle immagini davvero ispirate. L'intero album è da considerarsi se non un capolavoro (e poco ci manca), un lavoro eccellente. Un must per gli appassionati del metal più oscuro e affascinante, non potrete resistere al carisma emanato da una figura come Cadaveria. Ideale colonna sonora per ogni tipo di rituale esoterico.

Voto 9.TWolff.

 

Commenti: 4 (Discussione conclusa)
  • #4

    SLAY (venerdì, 14 dicembre 2012 21:20)

    UNO DEI LORO MIGLIORI CD BELLO SENZA ALCUN DUBBIO

  • #3

    xentrix (venerdì, 14 dicembre 2012 01:11)

    non amo molto la voce femminile in questo genere di musica ma lei e' assurda

  • #2

    xan (giovedì, 13 dicembre 2012 23:41)

    non so decidere se sono meglio con cadaveria o no....

  • #1

    Dany75 (giovedì, 13 dicembre 2012 21:58)

    caro twolff sono d'accordo con te grandissimo album!

Se dovessi descrivere in modo conciso chi sono i Kreator a qualcuno che non li conosce, credo che comincerei dicendo semplicemente "sono gli Slayer europei". Definizione che immediatamente farebbe cogliere (si spera) le sfumature del tipo di thrash proposto dal gruppo, che somiglia di più al combo slayeriano che non quello dei Metallica o altri (almeno per quello che concerne la produzione dei primi anni 80).

Ad onor del vero, però, questa definizione non gli rende giustizia, perchè potrebbe fare  erroneamente pensare che il loro stile sia ispirato o derivante dai thrashers californiani o fare capire che ne sono semplicemente la controfigura teutonica. Non è affatto così, e sebbene i Kreator hanno sicuramente una fama meno plateale non hanno avuto nulla da invidiare ai cugini d'oltreoceano, anzi, data la quasi contemporaneità edell'esplosione musicale di quegli anni che ha visto da un lato la Bay area e dall'altro la Germania, Petrozza e compagni sono a tutti gli effetti pionieri del genere.

L'album in esame risale al 1990, periodo in cui secondo molti il thrash stava esalando i suoi ultimi respiri, prima che scoppiassero i fnomeni del post-thrash e del nu-metal, in uno scenario in cui sembrava che il grunge dominasse tutto. Personalmente date le uscite discografiche che ci furono a cavallo tra 80 e 90 posso affermare che anche se il thrash stava effettivamente  morendo, quantomeno lo stava facendo con dei colpi di coda degni della gloriosa decade che l'aveva visto nascere.
I primi che mi vengono in mente: "Beneath the remains", "Arise", "Rust in Peace", "Seasons in the Abyss", ne sono l'esempio lampante, e a mio avviso questo "Coma of Souls", partorito un anno dopo (l'ancora più bello) "Extreme Aggression" altro non è che uno di quei colpi di coda.

Questo disco forse non è il capolavoro, ma rimane senza dubbio uno dei loro classici, vuoi per i motivi sopra elencati, vuoi per il periodo in cui uscì, vuoi perchè contiene alcuni pezzi che da sempre fanno parte anche delle loro scalette dal vivo quali "Coma of Souls", "People Of The Lie" e "Terror Zone",   quest'ultima talmente classica da essere parte integrante del sito ufficiale nel nome e nel concept fino al 2003  almeno .

Il disco è ineccepibile sotto tutti i punti di vista, a cominciare dalla qualità sonora molto superiore ai suoi predecessori che rende immediatamente giustizia al sound aggressivo che i teutonici sanno creare. La tipica intro acustica seguita da riffs distorti dopo alcuni secondi ci accompagna allo scream iniziale di Mille in "When The Sun Burns Red", e a seguire troveremo un ottimo dosaggio di ingredienti prelevati dal miglior manuale del thrash metal.
Tipiche cavalcate da headbanging immediato di pezzi brevi e fulminei ("World Beyond"), i classici del genere (più propriamente heavy che speed & thrash) con un inizio lento e cadenzato per crescere sulla distanza ("Terror Zone"), oppure i pezzi che appena partono non puoi fare a meno di mantenere il ritmo, tanto è trascinante nella sua semplicità ("Mental Slavery") per poi svilupparsi in cambi di tempo a supporto di soli di chitarra a volte (e spesso) lanciatissimi ma anche più brevi o melodici con parti in tapping e wah wah ("Material World Paranoia"), cambi di tempo frequenti e intro con chitarre in controvoce ("Twisted Urges").

Ultima nota, ma non per questo meno importante, i testi. Criptici e con parecchi riferimenti politici e sociali legati al mondo in cui viviamo descritti con una certa maturità, che appunto ne caratterizza la difficile comprensione. Mi piace come canta Mille in quest'album, con la sua voce roca e incazzata, e sebbene non abbia le caratteristiche del virtuoso capace di slanci alti e bassi, o di picchi altissimi, riesce comunque a mantenere sempre un tono tanto stridulo quanto robusto allo stesso tempo che si congiunge meravigliosamente sui riffs di chitarra e sulle parole.

I Kreator sono ancora oggi sono una delle thrash bands più apprezzate di sempre, sebbene in passato sono sempre rimasti un po' più nell'ombra rispetto ad altri. Peccato che li ho conosciuti troppo tardi rispetto ai più noti gruppi americani. Sapere che anche l'Europa e la vicina Germania hanno saputo contribuire allo sviluppo di uno dei miei generi preferiti è stata davvero una bella scoperta. Consigliatissimo a chi se lo era perso. voto 8

Dany75

Commenti: 5 (Discussione conclusa)
  • #5

    deicide (martedì, 18 dicembre 2012 23:20)

    disco che ha segnato la storia

  • #4

    skarlet (sabato, 15 dicembre 2012 00:55)

    un thrash dirompente e apocalittico, ma al contempo asciutto, tecnico, avvelonato da una melodia insidiosa che strizza l'occhio persino al death

  • #3

    wader (venerdì, 14 dicembre 2012 01:42)

    tecnicamente impeccabile

  • #2

    sonya (mercoledì, 12 dicembre 2012 00:45)

    molto trash oserei dire ma tosto tostissimo

  • #1

    fanthom (martedì, 11 dicembre 2012 22:54)

    si si grande lavoro.

Il primo album dei Sirenia, band formata da Morten Veland subito dopo essere stato lasciato dalla sua band precedente, i Tristania, è un vero capolavoro del gothic metal...

In questo CD, oltre a tutti gli elementi caratteristici del gothic metal (atmosfere cupe, cori, voci femminili, growl, voci maschili "pulite"..), troviamo anche numerosi effetti elettronici. Non possono poi mancare i violini, che in alcuni momenti duettano con le chitarre dando via a dei pezzi straordinari.
Le voci degli artisti sono molto belle: Fabienne si è rivelata una cantante adatta ai pezzi dei Sirenia e Morten ha migliorato ulteriormente il suo growl. Anche il suo metodo di comporre è migliorato (anche se dopo un album come "Beyond the Veil" è quasi impossibile migliorare..).

In questo album Morten, oltre a comporre, a cantare e a suonare la chitarra, suona anche tutti gli altri strumenti (ad eccezione dei violini)... gli altri componenti (il secondo chitarrista e il batterista) suonano solo nei live... L'album inizia con "Meridian", canzone molto incisiva dove non mancano cori, growl, violini e chitarre pesanti......bellissima la parte strumentale prima dei cori... a mio parere "Meridian" è la canzone migliore dell'album, perchè è energica e allo stesso tempo malinconica... si prosegue con "Sister Nightfall", una canzone molto bella ed energica il cui ritornello ti rimane in mente facilmente... la terza traccia, "On the Wane", è un altro capolavoro... in questa canzone non manca proprio nulla... infatti qui si possono trovare sia effetti elettronici che voci liriche, i quali sono contornati da bellissimi duetti tra chitarre e violini....il ritornello, con Morten che cambia voce in continuazione, è bellissimo.... dopo questa meravigliosa canzone, troviamo "In a Manica", canzone incisiva e abbastanza energica... degna di nota la fine con i cori e Morten che sussurra il ritornello... insomma, una canzone che merita... arriva dunque il momento della titletrack, una canzone particolare tutta da ascoltare.. infatti non ci sono parole per descriverla.... il testo è abbastanza macabro (infatti in un certo punto dice "I can feel the flames the fire lick me in vain"), la voce di Morten è più sull'aggressivo che sul dolce, i cori e gli effetti elettronici la rendono ancora più cupa, ma il pianoforte che c'è alla fine rasserena totalmente l'atmosfera...

E' il momento di "Lethargica", una canzone molto carina ed incisiva che non stanca mai nei suoi 6 minuti di lunghezza. Si arriva così all'altro capolavoro dell'album: "Manic Aeon"!!! Questa canzone è troppo bella!!! I cori sono bellissimi, così come i violini che, alternati alle chitarre, creano melodie magiche... il tutto contornato dalle meravigliose voci di Morten e di Fabienne che sembrano inseguirsi per tutta la durata della canzone!!! Si prosegue con "A shadow of your own self".... molto bello il ritornello cantato in growl!!!

L'album si conclude con la splendida ballata "In sumerian haze", a mio parere la ballata più bella che abbia mai sentito.... qui i violini si fanno sentire più che mai, suonando melodie dolci e malinconiche... la canzone è cantata interamente da Fabienne con Morten che sussurra...
insomma ragazzi... "At sixes and sevens" è davvero un CD bellissimo.... mi ricordo che all'inizio non mi piaceva molto ma, una volta capito, è un CD fantastico che ti regala tantissime emozioni!!! che dire ascoltatelo ne vale la pena. voto 8

Dany75

Commenti: 4 (Discussione conclusa)
  • #4

    crionicle (sabato, 15 dicembre 2012 18:47)

    che dire favoloso!!!!!!!!!

  • #3

    xan (mercoledì, 12 dicembre 2012 20:37)

    concordo apprezzo molto questo cd, senza ricordare che e' il loro primo lavoro

  • #2

    TWolff (mercoledì, 12 dicembre 2012 05:03)

    Direi che ci starebbe anche un 8,5. Album davvero ben fatto.

  • #1

    eddy77 (martedì, 11 dicembre 2012 23:33)

    bellissimo capolavoro meridian e' una canzone che merita tanto

"The Triumph of Steel" fu indubbiamente la più complessa saga epico/musicale dei Manowar. Dopo un incredibile cambio di line up che vide Shankle subentrare al mitico Ross e Rhino sostituire Columbus alla batteria i four Kings Of Metal riuscirono a ripercorrere quei magici sentieri dell’acciaio per rivelarcene, ancora una volta, i leggendari misteri in essi contenuti.I Manowar questa volta scomodarono la mitologia classica andando così a partorire melodie musicali e testi che, uniti, riuscirono a ricreare un'incredibile poema musicale.

Ed è proprio con il classico poema contenuto nei 28 minuti di Achilles, Agony and Ecstasy in Eight Parts che l'album ha inizio. L'incredibile suite epica in questione era intenta a rievocare magistralmente le mitiche gesta che videro Achille protagonista durante l’assedio di Troia. Il componimento era composto da vari passi ma rimarrà per sempre mitico il V passo (La morte di Ettore) dove venivano intonate alcune delle parole più belle mai composte dalla band:

I hear the silent voices I cannot hide. The gods leave no choices so we all must die. Oh Achilles let thy arrows fly, into the wind, where eagles cross the sky, Today my mortal blood will mix with sand.

L’act Manowar riuscì, qui, a rievocare misticamente tutta la passione e la rassegnazione di un eroe che non può sottrarsi al destino e che, come tutti, si prepara a morire. Proprio in quel momento, quando la morte gli si avvicina, comprende e si rassegna al fato a cui nessuno può nascondersi (i cannot hide), proprio in quell'attimo l'eroe diventa uomo. Ed è proprio dopo questo ipotetico momento divisorio che i toni della suite intraprenderanno vie più aggressive fino alla sua lontana e trionfale conclusione. Ma il disco non finiva certo qui e la carica hard’n heavy dell'anthemica Metal Warrior (dai fantastici refrain) e l’epica violenza di Ride The Dragon (incredibile fast song battagliera) ne costituivano altri due capolavori. Con Spirit Horse of The Cherokee, dal cadenzato andamento, la band era intenta addirittura e rievocare i leggendari indiani d’america. L’ossessiva Burning (che potenza!) cedeva ben presto il passo ad un’altra indiscussa hit del platter. Parliamo del capolavoro che viene a titolo di The Power of Thy Sword, Epic Metal song dove i Manowar rispolverarono quell'epicità tutta "Howardiana" che rese mitica la loro primordiale saga epica. Il brano, scandito da eroici refrain, era caratterizzato dalla superba prestazione vocale di Eric Adams che accompagnava la song fino al suo trionfale finale perso tra epici chorus. La strana The Demon’s Whip era costruita su di una costruzione melodica cupa e malvagia su cui gli indiavolati e pachidermici riff ne ricamavano oscure trame mentre nella conclusiva ballad Master of The Wind la band si spostava su trerritori dolci e carichi di pathos.

VOTO 8. BY TWOLFF

Commenti: 3 (Discussione conclusa)
  • #3

    TWolff (sabato, 08 dicembre 2012 23:04)

    Senza ombra di dubbio un album particolare ed accattivante.

  • #2

    MisterY (sabato, 08 dicembre 2012 20:57)

    non e' hai livelli di king of metal, ma e' ugualmente un capolavoro

  • #1

    hans (sabato, 08 dicembre 2012 20:03)

    meraviglioso, sublime lavoro degli inossidabili MANOWAR

I Coal Chamber possono essere in un certo senso considerati i puristi del nu metal: nel corso della loro carriera piuttosto breve e tormentata hanno pubblicato solo tre album ufficiali e non hanno mai manifestato tendenze poco nobili all'easy listening, nemmeno quando il neometal era un genere di largo consumo, ed è anche per questo che il loro successo non hai mai eguagliato quello di altri nomi rappresentativi o addirittura di immeritevoli cloni del genere .

"Chamber Music", il secondo album, esce nel 1999 ed inserisce il gruppo tra le realtà che hanno nobilitato questa scena. L'influenza dei Korn, che tanto (forse un pò troppo) aveva caratterizzato il debutto eponimo, è ancora presente, ma viene filtrata attraverso l'elettronica: le chitarre pesantementedowntuned di Meegs vengono abbondantemente effettate e inoltre vengono introdotte le tastiere, che donano coloriture dark alla musica del gruppo, un cupo e sepolcrale distillato di ossessioni e fantasmi personali. Una musica, dunque, fortemente espressionista ed esistenzialista, come del resto dimostrano i testi, in cui ancora una volta emergono i problemi del cantante Dez Fafara: "Not Living" ed altre canzoni descrivono un uomo distrutto dal divorzio e ancora inutilmente innamorato della moglie-sanguisuga che l'ha abbandonato e gli ha portato via tutto, ma in "Tyler's Song", dedicata al figlio, si scopre comunque un padre saggio e amorevole.

Proseguiamo con l'analisi del contenuto musicale. Dopo una breve introduzione strumentale per archi, "Mist", che sembra quasi prendere alla lettera il titolo dell'album, irrompe l'acredine robotizzata e futurista di "Tragedy". E' questa la musica da camera dei Coal Chamber, ancor meglio esemplificata dai brani successivi: "El Cu Cuy, UnTrue, What's In Your Mind?, Not Living, Entwined" "Feed My Dreams" si dispiegano in una sezione ritmica - Mike Cox alla batteria e Rayna Foss al basso - incalzante e nervosa che deve parecchio al funk (a proposito di influenze korniane) e riff semplici ma di ennesima potenza che sporadicamente cedono il passo a plumbee melodie sintetiche e futuribili. Su queste strutture, la duttile voce di Dez Fafara oscilla vertiginosamente da spoken feroci - chiamiamoli pure rap - e ringhi profondi - chiamiamoli pure growl - ad un registro cantato ora baritonale e ora perversamente androgino. Per quanto riguarda la componente melodica, le umbratili ballate "Burgundy" "My Mercy" aggiungono tocchi di nero all'elettro-pop autunnale dei Depeche Mode. Da menzionare è anche la curiosa cover di "Shock The Monkey" di Peter Gabriel, in cui alla voce di Dez si aggiunge quella di nientemeno che Ozzy Osbourne.

Peccato per il finale un pò sottotono (davvero mediocri "No Home" "Notion", nemmeno "Shari Vegas" è una perla), senza il quale il lavoro avrebbe meritato il massimo dei voti. Resta comunque un'opera notevole: i suoi meriti sono quelli di saper combinare il vigoroso e maschio turgore del nu-metal con atmosfere di natura più androgina e di rifuggire gli stereotipi del genere (in primis, nu metal = rap metal pompato e tamarro). Avrebbero meritato un destino migliore, i Coal Chamber.

VOTO 8. BY TWOLFF

 

Commenti: 6 (Discussione conclusa)
  • #6

    josef666 (giovedì, 06 dicembre 2012 23:48)

    MOLTO MEGLIO DI CERTA MERDA CHE ASCOLTO IN GIRO

  • #5

    SLAY (giovedì, 06 dicembre 2012 00:38)

    bello molto interessante

  • #4

    darkmoon (mercoledì, 05 dicembre 2012 22:29)

    bellissima la cover con ozzy da 10 :)

  • #3

    emperor (martedì, 04 dicembre 2012 16:22)

    a me stufa!

  • #2

    bonfire (lunedì, 03 dicembre 2012 00:51)

    sinceramente lo ascolti una settimana di fila e poi lo abbandoni non contiene pezzi che rimangono accettabile come lavoro

  • #1

    sonya (domenica, 02 dicembre 2012 20:27)

    in effetti si avrebbero meritato di piu' , sono tra i gruppi persi nel tempo

Fuoco Cammina Con Noi…Il Ritorno di Aborym era aspettato dai suoi tanti worshippers così come dai tanti invidiosi,che all’uscita dell’ottimo “Kali Yuga Bizarre” rimasero annichiliti dall’ambizione e la superiorità di una band realmente atta a creare dal Nulla ‘Suono e Silenzio’,'Attività e Distruttività’. Chi desiderava poter abbattere il Kampfgruppe al suo secondo attacco si troverà incredulo di fronte a questo nuovo assalto frontale partorito dalle menti di Malfeitor Fabban, Sethlans,Nisrok e Attila Csihar…”Fire Walk With Us!” recupera la bestialità del primordial black metal unito alla devastazione industrial noize direttamente ispirata da act come Das Ich,:Wumpscut:,ma anche sprofondando in momenti di follia pura alla Raison D’Etre:il tutto,ovviamente, 
con una personalità e maestosità degna di Aborym. Tracce come “Our Sentence”,”Love The Death As The Life” o la stessa title track,sono ottimi esempi di come l’essenza di Aborym si stia evolvendo su due binari paralleli,ma al tempo stesso con una sintesi perfetta delle sonorità extreme metal con quelle dell’ electro-goth;paradossalmente,l’estremizzazione della sperimentazione industrial non tralascia il recupero di sonorità thrash anni’80,in brani come “White Space” o “Total Black”,così come la capacità di saper innestare al momento giusto momenti ambient e apocalyptic folk…Nel finale la ripresa di “Det Som En Gang Var” di Burzum,lascia intravedere territori inesplorati su dove e come potrà evolversi il black metal,se solo si riuscisse ad allargare le proprie coordinate di attacco…E gli Aborym,nella loro guerra totale,a 360° gradi nel saper attingere da tutti i territori dell’estremo senza alcuna distinzione, dimostrano per l’ennesima volta la loro superiorità. 
Fieri,di essere nodo per tutte le avanguardie estreme. Fieri,di essere i migliori.Fuoco Cammina Con Noi…

VOTE 9.BY REXOR & TWOLFF.

Commenti: 4 (Discussione conclusa)
  • #4

    fanthom (giovedì, 13 dicembre 2012 01:29)

    bei tempi per gli aborym

  • #3

    ridethestorm (lunedì, 03 dicembre 2012 21:07)

    grande lavoro

  • #2

    svey (sabato, 01 dicembre 2012 00:50)

    si si bel lavoro lo devo ammettere

  • #1

    Dany75 (venerdì, 30 novembre 2012 00:12)

    ottimo cd assieme al successivo concordo

“Il battito di ali di una farfalla in Brasile, può, a seguito di una catena di eventi, provocare una tromba d’aria in Texas”. Edward Lorenz, meteorologo. 29 Dicembre 1979

Il cosiddetto “butterfly effect”, ovvero l’espressione metaforica della Teoria del Caos, che pone limiti definiti alla prevedibilità dell'evoluzione di sistemi complessi non lineari. Nulla di più azzeccato per provare a spiegare il contenuto di questo ottimo lavoro dei portoghesi Moonspell. Lo spostamento di un singolo elettrone per un miliardesimo di centimetro, a un momento dato, potrebbe significare la differenza tra due avvenimenti molto diversi ed è quindi impossibile prevedere il comportamento che un sistema caotico avrà dopo un intervallo di tempo, breve o lungo che sia.

E chi mai avrebbe creduto che i Moonspell, dopo essere passati dal black metal iniziale di “Under The Moonspell” e dal gothic di “Irreligious”, potessero dare vita a qualcosa di tanto caotico? Si, perché è il caos il padrone di “The butterfly effect”. Un padrone che però non rovina il suo regno, ma lo rende disparato e originale.
E viene a crearsi così, un ibrido tra le sonorità doom basilari e tra distorsioni acide e tribalismi violenti, con il supporto di anormali strutture gotiche industriali. Emerge tradizionalmente nel sound la loro dedizione al male, che le chitarre esprimono a volte in modo decadente e sensibile, e a volte in modo debordante.

L’uso dell’elettronica, simile a quello dei grandi Depeche Mode, e i romantici arrangiamenti degli archi che compaiono in alcune song, sono l’effetto sorpresa del disco. Il suono downtuned delle chitarre e i growl che Ribeirio emette in diversi brani (Soulsick, Lustmord su tutte), ricalcano le orme del passato; i suoni tribal tipo vecchi Sepultura (Butterfly fx) e il dance-floor metallico (I am the eternal spectator) sono inseriti in un contesto sul quale sarebbe possibile mettere insieme tanti generi ancora. Non mancano gli episodi lenti (Can’t Bee e Dissapear here) dove il combo lusitano abbandona le stesure morbose e corrosive, lasciandosi trasportare da brani più razionali.

Possiamo ribadire con estrema sicurezza che “The Butterfly Effect” è stata la dimostrazione tangibile che i Moonspell sono una delle più belle realtà del gothic doom-metal, vista la loro polivalenza e la loro voglia di sperimentare, che li mette inevitabilmente in continua discussione. voto 8

dany75

 

Commenti: 4 (Discussione conclusa)
  • #4

    eddy77 (martedì, 11 dicembre 2012 00:34)

    stupendo, difficilmente torneranno a questo splendore i moonspell

  • #3

    MisterY (lunedì, 03 dicembre 2012 22:05)

    bellissimo cd concordo con il voto darei qualche cosa in piu'

  • #2

    Dany75 (venerdì, 30 novembre 2012 00:11)

    la firma era di colore nero e non si vedeva, testina!

  • #1

    Rexor (giovedì, 29 novembre 2012 21:22)

    Ottimo album,caro Dany75 firmati le recensioni!

Visions è stato l'album della definitiva consacrazione degli Stratovarius e rappresenta per -chi scrive- anche l'apice della carriera di questo gruppo che -vi piaccia o meno- è stato uno dei più importanti degli anni '90 in ambito power. Arrivati già ad un buon livello di notorietà col precedenteEpisode, la band capitanata da Timo Tolkki riuscì a migliorarsi sotto tutti i punti di vista, incidendo almeno una manciata di brani che diverranno dei veri e propri classici invocati come manna dal cielo da tutti i loro fan. È innegabile che Visions sia una vera e propria perla per gli amanti del power metal. Questo album contiene tutto ciò che si possa chiedere a un disco power: velocità, melodia, potenza, tecnica. Il tutto condito da un songwriting e una maturità artistica senza eguali nella carriera degli Stratovarius.

È qui -e sul precedente Episode- che Timo Tolkki riuscirà ad esprimersi su altissimi livelli; Jens Johansson è un vero e proprio talento con la tastiera (il clavicembalo che apre Black Diamondper esempio), e con le continue fughe a braccetto con Tolkki ha creato un vero e proprio trademark -invano emulato da molti gruppi successivi-; Jari Kainulainen e Jörg Michael sono il ritmo degli Strato, batteria e basso si accompagnano alla perfezione scandendo le battute diVisions senza mai risultare forzati, dalle parti speed pure a quelle più cadenzate; infine, Timo Kotipelto, dotato di una voce particolare, che s'incastra in maniera a dir poco divina nel puzzle di questi finlandesi.

Il disco si apre con il mezzo tempo The Kiss Of Judas, dotato di un ritornello vincente e di un bellissimo solo di Tolkki. La canzone cresce di tonalità fino a svanire lasciandoci decisamente soddisfatti. Poi, parte il clavicembalo di Johansson per introdurre uno dei pezzi più famosi -e sul quale hanno pogato e fatto headbanging migliaia di fan- parlo della magnifica Black Diamond. Il ritornello è davvero da incorniciare e da cantare a squarciagola ogni qual volta lo si ascolti. Non è da meno la successiva Forever Free, aperta da un bellissimo riff di Tolkki. Siamo su ritmi leggermente inferiori, che poi salgono di nuovo nel bridge per disegnare un'altra perla di headbanging puro, che vede il suo apice -come da copione- in un ritornello perfetto per i live.Before The Winter è la prima ballad del disco, altra grande esempio delle capacità di songwriting di Tolkki. Il pezzo è buono e gode di un Kotipelto sugli scudi che interpreta lo spirito malinconico della canzone in maniera perfettta. Segue un altro classico della band, sto parlando di Legions ancora una volta partorito dalle mani di Timo Tolkki. La canzone -tanto per cambiare- inizia con un riff leggendario di Tolkki per poi svilupparsi su ritmi sostenuti su cui ancheJohansson ha la possibilità di mostrarci le sue abilità tecniche. Ritornello -manco a dirlo- che rasenta la perfezione. 

Con The Abyss Of Your Eyes si ritorna sui binari dell'opener. Anche qui ci manteniamo su livelli decisamente al di sopra della media. Holy Light è un pezzo strumentale dove tutti i componenti del gruppo hanno modo di sbizzarrirsi a piacere con la tecnica, ma non per questo la canzone risulta forzata. Stop n' go, repentini cambi di tempo che culminano nel break centrale acustico che spezza in due il pezzo che poi riacquista velocità per mezzo delle dita della coppia Tolkki-Johansson. Un palese esempio di quanto si possa non annoiare pur andando veloce! Giusto il tempo di rifiatare per preparaci ad un altro classico e -credo- la canzone più conosciuta in assoluto degli Strato: Paradise. Che dire di questa canzone? Non ho davvero parole per descrivere la bellezza scaturita da una struttura insolitamente semplice per gli Stratovarius. Solo questo pezzo vale l'acquisto di questo disco. Questi Stratovarius all'epoca non avevano certo rivali. Un dolce arpeggio di Tolkki ci introduce alla seconda ballad del disco: Coming Home, anche questa di pregevole fattura e con un Kotipelto protagonista assoluto. Molto bello e melodico l'assolo di Tolkki. Chiude l'album la lunga title track che è un continuo sali scendi di ritmi e tonalità, scandidi dai versi profetici di Nostradamus.

In chiusura, questo è sicuramente il picco più alto toccato dagli Stratovarius. Un disco veramente superlativo per tutti quelli che amano il power metal. Da avere a tutti i costi. 

VOTO 9. TWOLFF

Commenti: 6 (Discussione conclusa)
  • #1

    Dany75 (martedì, 27 novembre 2012 21:43)

    La storia del Metal si è sempre caratterizzata per aver regalato ai suoi adepti, a volte inaspettatamente, lavori ben al di là di ogni umana concezione. Così fecero i Black Sabbath con l’omonimo, con paranoid… i Motorhead con Ace of Spades, Overkill… i Metallica, ke nell'ormai lontano '86 regalarono alla storia un disco il cui unico coerente aggettivo è "distruttivo": Master Of Puppets, il disco metal per eccellenza.
    Seppure in un ambito molto diverso, questo avvenne anche nel 1997, per opera di 5 ragazzi provenienti dalla scandinavia, madre di tante band a dir poco promettenti: gli Stratovarius, che risvegliarono il (vero) metal da un periodo travagliato con “Visions”, una pietra miliare del power.

    Tutto ha inizio con The Kiss Of Judas, canzone in pieno stile del gruppo, con un ritmo molto sostenuto e con ottimi assoli nella sua parte centrale, ed un inizio da schiaffo in faccia: ottima la prova vocale di Timo Kotipelto. Un travolgente giro di clavicembalo ci fa ora tornare in mente le corti barocche del '700, dove i clavicembalisti la fanno da padroni, e dove le melodie si respirano assieme al grande sfarzo dei regnanti: è l’inizio di Black Diamond, la seconda traccia dell’album, nella quale Timo Kotipelto ancora una volta ci delizia con i suoi acuti, e Timo Tolkki e Jens Johansson, circa a metà della traccia attaccano con un duetto dei loro, assolutamente disarmante per chiunque volesse anche lontanamente provare ad imitarli. Sui canoni e nel perfetto stile degli Stratovarius è la successiva Forever Free che alterna momenti più veloci e ritmati alla classica melodia tipica del gruppo. Anche qui creano grande atmosfera i ritornelli, grazie alla sovrapposizione dei cori alla voce di Kotipelto. Lenta e dolce (forse troppo) è invece la quarta Before the Winter il cui testo si riallaccia anche alla nona Coming Home, entrambe scritte interamente da Tolkki e ci parlano ambedue di una storia d'amore e del finale ritorno a casa dall'amata. Giungiamo ora a Legions, dove è chiaro il riferimento ai fans della band, “Legions Of Twilight”. Traccia veloce e aggressiva, impreziosita dai classici cori dei ritornelli. Dopo aver viaggiato sospesi nel vuoto per le surreali atmosfere di The Abyss Of Your Eyes ci troviamo di fronte ad una vera e propria devastazione tecnica: Holy Light. L'ultima instrumental scritta dalla band ke racchiude in se tutto il genio di Timo Tolkki, la sua grandissima abilità, l'inestimabile propensione melodica, accompagnato in maniera impeccabile da Jens Johansson; ottima anche la prova del bassista Jari Kainulainen. Chiudono l’album Paradise, capolavoro e colonna portante dei concerti della band scandinava, inno alla natura e alla follia distruttiva dell'uomo, e quella Coming Home, degna erede di Forever, che vede il duo Tolkki-Kotipelto ancora una volta impegnato a tirar fuori da dentro di sè tutta l'atmosfera, la malinconia palpabile che rende questa canzone assolutamente stupenda. La melodia iniziale di chitarra trascina l'ascoltatore via da tutto e lo proietta nella dimensione della canzone, che prosegue con i soliti, grandiosi ritornelli con la sovrapposizione delle voci, che danno al tutto un tocco di estrema bellezza. Ma la degna conclusione arriva con la title-track, Visions, che ci parla delle centurie di Nostradamus a cui è ispirata la copertina dell’album. Ci presenta un testo molto vario, ke contiene alcuni pezzi parlati in cui vengono letti dei brani dalle centurie, accompagnati dalla musica ke segue il passo continuando a cambiare lungo tutto l'arco del pezzo, con una prima parte veloce e frenetica che scema in una seconda via via più calma. Si arriva così al maestoso finale, un unico immenso coro emozionante per la sua regalità, in linea con la magia dell'intero album.

    È insieme a Episode il disco migliore del gruppo, ke raggiunge la maturità artistica e diventa un punto di riferimento per chiunque voglia cominciare a masticare musica del genere. Non può mancare nella collezione di un buon metallaro.

  • #2

    ridethestorm (mercoledì, 28 novembre 2012 01:38)

    capolavoro , q cd ragazzi!!!

  • #3

    sonya (mercoledì, 28 novembre 2012 17:53)

    concordo cd stupendo oserei dire!

  • #4

    storm999 (mercoledì, 28 novembre 2012 23:08)

    bellissima gemma da avere tra i cd

  • #5

    Rexor (giovedì, 29 novembre 2012 21:24)

    Capolavoro per eccellenza del prog.metal. Un album che ha segnato la storia del proprio genere.

  • #6

    eddy (martedì, 04 dicembre 2012)

    suggestive black diamond e visions

Sono stati di parola gli Amorphis: eccoci alla terza parte della trilogia sul Kalevala, raccolta di poemi nazionali finnici presa a fonte di ispirazione dai nostri per "Eclipse", "Silent Waters" e, appunto, il nuovo "Skyforger". Il progetto vocalist e frontman Tomi Joutsen si è quindi compiuto: vediamo di capire se il risultato è degno della fama del gruppo oppure no.

Il disco ruota attorno alle vicende del Sampo, oggetto prodigioso forgiato nelle fucine alla base dell'albero della vita dal fabbro Ilmarinen, e della sua sparizione ad opera della strega Louhi. Non mi dilungo ulteriormente nella storia per due motivi: non sono (purtroppo) perfettamente a conoscenza dei dettagli delle vicende "originali" (tramandate cioè dai testi originali), e voglio che chi ascolterà il disco possa interpretare da solo la storia, seguendo le liriche composte dai nostri.

Musicalmente l'album si pone a metà strada tra "Eclipse" e "Silent Waters". Vi anticipo subito che per me quest'ultimo è il miglior disco della band da un po' di tempo a questa parte (da quando in pratica il gruppo ha cambiato corso e sonorità), ma "Skyforger" lo segue tranquillamente a breve distanza, eguagliandolo per emozioni e eticità espresse.

Joutsen non rinuncia alle parti aggressive e al growl: ne limita l'uso, questo sì, ma si dimostra come sempre un cantante eccezionalmente versatile, capace di passare con disinvoltura tra più registri espressivi, modulando la propria voce per toccare anche le corde più nascoste. Esa Holopainen e Tomi Koivusaari da par loro fanno faville, macinando riff ora power, ora progressive, ora death, evitando i rallentamenti che avevano a tratti dipinto il precedente "Silent Waters" di tinte tendenti al doom. Per tutti i solchi del disco si respira un'aura violentemente melodica (perdonatemi l'ossimoro), una grande espressività e passione trasmessa sin dalla prima traccia, "Sampo". Un'apertura coi fiocchi, che molto deve ai due dischi precedenti, e un proseguo del pezzo coinvolgente e epico, con un ritornello davvero trascinante e una struttura generale che più volte (e sarà una costante anche per altri pezzi) abbraccia sonorità progressive settantiane.

La successiva "Silver Bride" è il brano usato da apripista per "Skyforger", e ascoltandola capirete da soli perché: contiene tutti gli elementi che finora hanno caratterizzato i nuovi Amorphis, tutti riuniti in un pezzo tutto sommato corto, ma di grande impatto.

Il lato rabbioso dei nostri ancora non è completamente emerso, se non a tratti: bisogna aspettare "Majestic Beast" per poterlo apprezzare (non senza però esserci goduti "From The Heaven Of My Heart" e soprattutto "Sky Is Mine", dal finale travolgente). L'inizio di questa traccia mi ricorda addirittura "The Grand Conjuration" degli Opeth, per il ruolo giocato dalla voce (un growl cavernoso) e dalle chitarre, che intessono trame solenni e classicheggianti. A questa brutalità risponde un ritornello dei più dolci sinora sentiti nell'album, un raggio di sole che squarcia una cortina di nubi apparentemente insondabile.

"My Sun" ci è utile per alleviare la potenza del precedente brano (simil-ballata un po' tiepida a dire il vero) e per traghettarci a un altro singolone, "Highest Star", quello dai toni più folk di tutti i pezzi sinora ascoltati, anch'esso potenziato da un ritornello da brividi.

Dopo tanti bei pezzi un calo di tono può starci: le successive "Skyforger" e "Course Of Fate" non raggiungono infatti i risultati sperati, e presto vi troverete a skipparle. A riallacciare le fila di tutto il disco ci pensa però "From Earth I Rose", che tanto sa di pezzo epico finale, un riassunto di quanto finora ascoltato, i titoli di coda, per così dire, dell'intero album. La componente folk di "Highest Star" viene qui ripresa e portata a un livello ancora più alto, e le stesse melodie molto si avvicinano a quanto si è potuto ammirare con "Tuonela", con momenti più pesanti e altri più tenui. Conclusione eccezionale quindi, scelta migliori non poteva essere fatta.

Tirando le somme, abbiamo tra le mani l'ennesimo centro degli Amorphis. Che, preciso onde evitare sterili critiche: non sono quelli di "Elegy" o di "Tales...". Quegli Amorphis lì appartengono al passato, sono una tappa di un processo evolutivo che ha portato i finnici lontano dal death (dalle tinte folk e progressive) degli esordi. Questi elementi sono andati a costituire, assieme a altri, l'ossatura del gruppo attuale, ne costituiscono una faccia, ma per fortuna non più l'unica. Ripeto il mio giudizio già espresso: mettendo da parte per un attimo i vari "Elegy", "Tales..." e "Tuonela" e considerando solo le ultime produzioni della band, questo "Skyforger" si pone un gradino al di sotto di "Silent Waters", per me ancora insuperato. Ciò nonostante è un disco da avere in tutti i modi, non credo possa scontentare chi lo farà suo. Da premiare infine anche la caparbietà dei nostri nell'andare a ripescare e riproporre tematiche comuni a non molti, cercando di condividerle e di renderle più fruibili al pubblico. voto 8,5

Dany75

Commenti: 11 (Discussione conclusa)
  • #11

    MisterY (martedì, 04 dicembre 2012 23:13)

    molto incisivo, si assimila rapidamente ma non stufa con il tempo, il nove ci stava

  • #10

    xan (martedì, 27 novembre 2012 17:16)

    senza dubbio uno dei migliori lavori, best!

  • #9

    avok (lunedì, 26 novembre 2012 22:28)

    indubbiamente un capolavoro

  • #8

    cadaveria83 (sabato, 24 novembre 2012 00:13)

    ottimo disco molto diretto

  • #7

    ninho (giovedì, 22 novembre 2012 23:36)

    me gusta mucho jajajjaaja

  • #6

    SIX-M (giovedì, 22 novembre 2012)

    LA TRILOGIA E FANTASTICA I BRANI SONO TUTTI MAGNIFICI.GLI AMORPHIS NON DELUDONO MAI

  • #5

    emperor (giovedì, 22 novembre 2012 01:02)

    a me non piace tutto alcuni pezzi mi fanno cagare ma il complessivo e' accettabile come lavoro.

  • #4

    frank (mercoledì, 21 novembre 2012 22:09)

    ottimo lavoro da parte degli amorphis a me questa trilogia e' piaciuta molto

  • #3

    ridethestorm (mercoledì, 21 novembre 2012 18:22)

    ALCUNI PEZZI SONO BELLISSIMI

  • #2

    josef666 (mercoledì, 21 novembre 2012 02:08)

    PREFERISCO SILENT WATER

  • #1

    alvin (martedì, 20 novembre 2012 23:12)

    ottimo cd concordo con la recensione

Dalle sintetiche visioni di With No Human Intervention, all'apocalisse sonora di Generator.
Il combo black\industrial piu' discusso del globo subterraneo si ripresenta ai nastri di partenza con un monumento di puro dolore radioattivo e contaminato. Malfeitor Fabban questa volta spinge più in là il suo ego devastatore per conferire al proprio sound piu' oppressione sonora e rabbia. Se Kali Yuga Bizzarre, Fire Walk With Us e lo stesso With No Human Intervention hanno alimentato la storia con black estremo, attingendo da incubi elettronici la propria essenza, a Generator spetta il duro compito di dare un’anima al nichilismo piu’ oscuro e irrazionale.

E’ il tassello mancante dell'apocalisse cibernetica. E’ l'essenza stessa del black, incisa su calde, caldissime lamiere d'ogni genere e forma. Abbandonate le chimere sintetizzate delle precedenti release, abbandonate le glaciali vocals di Attila Chisar per Prime Evil, chitarrista del combo black Mysticum, si torna a estremizzare in maniera pura il genere, ripartendo dal freddo glaciale della tanto amata scuola Norvegese. Bard Eithun Faust alla batteria è quanto di meglio il nero panorama possa offrire. Un'alchemica trasposizione dei nostri incubi e delle nostre certezze. Il male ramificato e consolidato.
Solo gli Aborym sanno gestire abbandoni sonori e fisici estremi, solo gli Aborym possono attualmente rappresentare il nichilismo sintetizzato e futurista. Uno stretto dolore, un profondo cerchio che si stringe e non fa più respirare. Una compressione totale dell'anima e delle sue ramificazioni. Concettualmente incline a negatività, morte e oppressione, Generator si lascia avvicinare, toccare, sfiorare con gli occhi, fino a farti allontanare dall'essenza stessa di vita. Ed e' qui che si delinea la solitudine piu' oscura, il non-senso estremo e l'abrasiva forma del nulla.
La corrosiva rappresaglia sonora di Generator e' figlia delle costanti malformazioni rumoristiche di Anaal Nathrakh di Domine Non Est Dignus, degli Axis Of Perdition di Deleted Scenes From The Transition Hospital e del black metal "ritoccato", invaso e ri-vissuto da contaminazioni elettroniche (in dose meno massicia di With No Human Intervention). Si puo' assaporare qualsiasi essenza di estremizzazione: dai Satyricon di Rebel Extravaganza ai primi Myrkskog di Death Machine, dagli stessi Mysticum agli immortali Emperor, per chiudere con substrati di serrato industrial.

C'e' meno elettronica, dicevo. Input del guest Richard K degli svedesi TWZ si inseriscono senza alterare troppo la scena. E non c'e' piu' la furiosa drum machine, ora impazzita e ora dedita a omaggi all'Aphex Twin piu' perverso. Piu' black primordiale quindi, meno affanno radioattivo, ma una sensazione di un macabro smarrimento visivo. L’intro Armageddon apre l’oscura danza, che la tesissima Disgust And Rage (Sic Trausit Gloria Mundi) rende aliena e senza vita. A Dog-Eat-Dog World smarrisce in territori maleodoranti la propria tediosa anima in un crescendo di estrema violenza black. La voce di Prime Evil appartiene ad un Attila Chisar cybernetico e irreale. Una pressante pulsazione di una fabbrica d'amianto in disuso. Ma il loro dolore sa scomporsi in piu' parti. Si concentrano infatti sul loro terreno scheggie death\thrash swedish, come se Nysrok avesse trovato nei Dark Tranquillity di Character una nuova, cruda, intolleranza visiva. Rianrama Kolossal S.P.D.R. (Satanic Pollution - Qliphotic Ra), Suffer Catalyst, Between The Devil And The Deep Blue Sea, la dannata title track, la sorprendente Man Bites God, opera ultima dell’ugula di Attila: le basi restano immutate nel loro maestoso incidere, attente e dominanti… fra black, death, industrial e spiritualità ambient-sintetica figlia degli MZ 412. Il principio Aborym di fare fede al male ramificato e' fortemente sorretto da una corruzione sonora priva di alcune luce.

Fanno male gli Aborym, esasperano il nudo concetto di black intollerante, spingono più in là estreme alterazioni di combi radioattivi, mischiandole, come detto, a rabbiose tematiche death metal ed elettronica minimale. Tutto si concede al lento andamento della macchina-Aborym. Tutto viene esasperato fra le opprimenti lamiere di Generator. L'abbandono sonoro, il triste rimando a scenari grigi e spenti e l'immutata capacita' di "saper dove far male" non sono che tenui scheggie della loro fabbrica. Il resto non può e non deve appartenere a basi terrene.
Se cercate in qualche vostro lato oscuro un'antica repressione sintetica, affacciatevi senza timore a questa nuova, lancinante, opera… perchè gli Aborym rappresentano quella parte di noi che ancora non conosciamo…  

Voto 9 by Rexor

Commenti: 7 (Discussione conclusa)
  • #7

    hans (giovedì, 06 dicembre 2012 10:20)

    A me il disco è piaciuto molto, nonostante gli inattesi cambiamenti. Consiglio comunque un ascolto preventivo.

  • #6

    xan (mercoledì, 28 novembre 2012 23:36)

    grandi grandi aborym

  • #5

    bonfire (giovedì, 22 novembre 2012 00:40)

    a me fanno venire il mal di testa :)

  • #4

    frank (mercoledì, 21 novembre 2012 22:10)

    ottimo lavoro, dicasi il contrario per il loro ultimo lavoro che giudico privo di senso

  • #3

    subzero (martedì, 20 novembre 2012 01:39)

    GRANDI ABORYM

  • #2

    eddy (lunedì, 19 novembre 2012 23:39)

    molto pesante come album accipicchia!!!!!!!!!

  • #1

    TWolff (sabato, 17 novembre 2012 22:11)

    Generator, così come Fire walk with us, è un album che mi ha molto intrigato e, nonostante io ascolta musica un pò diversa da quella degli Aborym, non posso non ammettere che questo sia davvero ben fatto. Di mio gradimento merita un bel 8,5. EVVAI SOCIO REXOR!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!

Premessa: non fatevi ingannare dalla lunghezza della rece, per favore leggetela, vi pago pure domani, (oggi sono al verde)ahahahahahahah.

 Molto (ma molto) probabilmente saranno in pochi o in nessuno quelli che si fermeranno a leggere questa mia, dato che è fin troppo difficile attirare il pubblico con il titolo di un album su cui ormai si è detto praticamente tutto (e anche di più). Io stesso ho tradito la mia etica personale di NON SCRIVERE MAI UNA RECENSIONE GIA’ PRESENTE!! Diamine, mi sono trattenuto dal rifare quella dei Cradle of Filth, Mandicore (dopo averlo ascoltato bene… Ma DEVO farla per un album che ha letteralmente cambiato il mio modo di approcciarmi alla musica. Uno dei pochi, vi assicuro, che ascoltavo anche per 10 volte al giorno senza stancarmi, dieci  anni fa se non piu', e che ancora ritengo degno dei miei padiglioni, quando di solito tutti i dischi di cui ho fatto “indigestione” in passato riposano per tempi anche molto lunghi tra un’ascoltata e l’altra (vorrei vedervi con più di 4000 CD (originali e non, ad ascoltarli tutti quando non hai un minuto libero per farlo).

Ecco perché non voglio essere banale. Non voglio parlarvi di come suona l’album, che stanno i pezzi tribali armeni, che sta questo, che sta quello, così colà, pipì popò. A che serve? Tanto lo saprete già. Non credo sia possibile per un normale amante della musica che scrorrazza in internet non aver già visitato una pagina con una rece di quest’album. E d’altronde è stato già detto in altre recensioni su questo stesso sito. Quando si dice il successo (quelle poche volte che critica e pubblico vanno a braccetto, e la vera arte entra alla portata di tutti). No, amici, no. Io voglio parlare di un argomento forse molto più utile: quello che ho provato ascoltando quest’album. Che ho provato 4 anni fa, che provo tutt’ora. Leggete, se trovate la cosa interessante/divertente: in caso contrario basta un clic, la pagina sparisce e amici come prima. Ma non vi consiglierei di farlo.

Partiamo da un punto: ho ascoltato questo cd fino alla nausea: i cari SOAD hanno rifatto il theme di “The Legend Of Zelda”, probabilmente il videogioco a cui molti sono legati (penso). Un giorno leggendo una recensione,  mi ritornano in mente i SOAD e mi colpisce la voglia di rimettere su “Toxicity” dopo tanto tempo per vedere che cosa provavo, ora che di musica ne capisco un po’ di più. Bei cojoni, mi sono detto. O cazzo, se preferite. Dopo 10 anni la sensazione non solo è rimasta la stessa, ma forse è stata pure più forte. Ho visto i peli che mi si raddrizzavano all’arpeggio di “ The Prison Song”. Accentuata dal fatto che pensavo a Zelda.

Mi viene un dubbio, ma succede solo a me questa cosa? A voi non vi è mai capitato di ascoltare più volentieri un gruppo dopo averlo ascoltato coverizzare una canzone? A me sì, diverse volte. Ad esempio ho iniziato ad amare i Poison The Well sul serio solo dopo aver ascoltato la loro cover di “Today” dei Pumpkins. Figurati quindi in questo caso, dove la cover era del theme di un videogioco che amavo. Ecco la mia (stupida, lo ammetto) idea: ascoltare un gruppo mentre non suona la sua musica ti fa preparare spiritualmente quando sarà il momento di ascoltarlo seriamente. Ti fa davvero entrare nell’ottica di un gruppo. So di essere poco chiaro ma, perdonatemi, non riesco davvero a spiegare questa sensazione. Ascoltare una canzone dei System mentre penso prima a Zelda e poi ad un loro testo politico (esempio) è qualcosa che mi fa eccitare, giuro. Prima lo scherzo, poi si fa sul serio. E come vedere il bambino innocente di “Shining” quando già sai che il padre andrà a cacciarlo con l’accetta. Cazzo Freud che fine hai fatto? Aiutami tu. Eccomi lì sul divano mentre il mio lettore accarezza “Toxicity”. “The Prison Song”. Riff violenti e violentati, stoppati per un tempo che sembra interminabile, poi ripetuti. Voce psicotica. Intrecci di voce computerizzata di condanna sul sistema carcerario negli USA, e poi Serj che impazzisce. E poi quell’arpeggio, Dio mio, quell’arpeggio. Ora so cosa sono i brividi. Appena sento "They try to build a prison… for you and me! Oooh baby… you and me!” seguita dal growl (ci sta!) di Serj, io mi sento G E L A R E. Altro esempio. I pezzi tribali in “Deer Dance”. La voce di Serj in “X” che, a dir poco, è geniale. Con un riff di chitarra che è la semplicità fatta riff, e proprio per quello emozionante. I rallentamenti thrash di “Atwa” e le accelerate psicotiche di “Shimmy”. Il coro di “Forest”, da pelle d’oca. L’assolo orientale in “Psycho”, una canzone che di orientale ha poco o nulla, e che tratta delle groupies. La voce incrociata di “Aerials” dall’atmosfera sulfurea, un inno metal di 4 armeni oppressi, così come la magniloquente title-track, la fatidica traccia 12 che è la ballata SOAD per eccellenza.
E infine, lei, la regina: “Chop Suey!”. Ma come si fa a descriverla. E’ geniale fin dal titolo (è il nome di un piatto). Un’intro di chitarra acustica che sfocia come un fiume in piena in un muro elettrico che si arresta di colpo. Testo sputato a mitragliatrice sull’ascoltatore mentre un sussurro ammalia e stordisce. Rallentamento, nuova sfuriata. Ma è tutto un pretesto per sfociare in un finale da opera d’arte, un tripudio di cori, di “when angels deserve to die”, una voce intrecciata avvolgente, note di piano che accarezzano l’anima.

Ma come si fa, porca troia. Ma come hanno fatto a farsi venire certe idee? Ciò che stupisce è come tante idee, diverse anni luce tra loro, si ritrovino assemblate in una proposta compatta, COERENTE, eppure mostruosamente eterogenea. L'incertezza. La schizofrenia. La psicosi. La malinconia. La tristezza. La gioia. La speranza. La rabbia. L’odio. L’amore. Questa musica è vera anima umana. La verità è questa: “Toxicity” è un album interamente creato dai particolari, che vive e si basa su di essi. Il suo potere mistico che lo rende così affascinante sta nel coglierne tutti gli aspetti particolareggiati che lo costituiscono, anzi che lo costruiscono. Non c’è nulla, ma nulla, ma proprio nulla nulla nulla in quest’album che non sia lì per un determinato motivo. Nulla. Non un riff, non un coro, non una melodia, non un assolo, non un uno spazio vuoto (pausa), non un microscopico pezzettino di voce. “Toxicity” è un capolavoro perché è costituito da tanti piccoli (grandi) capolavori, che sono tutti i singoli secondi che passano sul display del tuo lettore mentre lo ascolti. Un piedistallo obbligato nella storia di quello che definiremmo post-metal. Un classico imprescindibile. Irripetibile. Unico. Anzi: unici. Unici i 4 armeni. Unici quei piccoli, irripetibili, meravigliosi secondi.voto 10

Dany75
Commenti: 4 (Discussione conclusa)
  • #4

    ridethestorm (giovedì, 22 novembre 2012 00:22)

    interessante lavoro, carino anche il precedente

  • #3

    xan (martedì, 20 novembre 2012 22:56)

    mitici, bei tempi per loro, peccato che si sono persi.

  • #2

    sonya (martedì, 20 novembre 2012)

    bellissimo........

  • #1

    TWolff (venerdì, 16 novembre 2012 21:04)

    Bellissimo album. Il migliore, secondo me, del loro repertorio.

Tre anni sono trascorsi da quando il genio di Christofer Johnsson diede alla luce i suoi ultimi figli, i gemelli "Sirius B" e "Lemuria", imprimendo con essi una decisiva svolta nella storia dei Therion. Dopo l’apoteosi di prosopopea wagneriana immortalata nell’aulico “Secret of the Runes”, la creatura di Chris pareva infine appagata dagli esiti dell’evoluzione classica iniziata con il capolavoro “Theli” – ma che a ben guardare gettava le radici già nel visionario “Ho Drakon Ho Megas” – e si decideva a ridimensionare almeno in parte la portata di cori e orchestrazioni, allora predominante. In questo disegno, toccava allo stesso “Sirius B” incarnare la nuova anima dei Therion, (relativamente) più sobria e asciutta, con “Lemuria” a tracciare un'ideale collegamento con le ambizioni operistiche del passato. Da allora, si diceva, sono passati tre anni. Che ne è dei nuovi Therion?

Stavolta, invece che due dischi distinti e indipendenti, ci troviamo di fronte un solo album suddiviso in due CD. La quantità di materiale resta notevole, i contenuti impegnativi; chi vorrà avventurarsi nell’ascolto si consideri avvertito: non avrà vita facile. Il primo approccio è infatti per molti versi arduo e faticoso, non tanto per la complessità delle tracce – sia chiaro, non indifferente – quanto per la durata del disco, la densità sonora a tratti decisamente elevata, nonché per alcune soluzioni adottate nella costruzione dei brani. Snellite le orchestrazioni, sgravati i cori da gran parte del peso sostenuto nei dischi passati, stemperata in parte la possanza delle chitarre, le composizioni tendono ora a privilegiare un approccio più disomogeneo ed elaborato. Ne consegue una relativa perdita di immediatezza da parte della tracklist nel suo complesso, che richiede dunque un’ulteriore dosa di pazienza per essere compiutamente assimilata. Chi dei due precedenti full-length aveva apprezzato proprio la potenza espressiva sul breve periodo, potrebbe cominciare a storcere il naso.
Ma c’è dell’altro. Vero fiore all’occhiello di "Gothic Kaballah" sono le estasianti alchimie vocali, capaci di descrivere mirabili intrecci di voci maschili e femminili, esaltando le straordinarie capacità interpretative dei solisti. Sono proprio queste a togliere sovente le castagne dal fuoco nei passaggi più problematici, quelli in cui un temporaneao appannamento del songwriting o un improvviso calo di tensione lirica rischiano di compromettere il buon esito dei brani. Ma veniamo al dettaglio.

Tocca a “Der Mitternachtlöwe” aprire le danze: un incipit sulle prime spiazzante, sul quale confluisce una molteplicità di influenze riconducibili ai campi più disparati. In seno a una base ritmica serrata e incalzante si innestano infatti orchestrazioni da colonna sonora, melodie dal sapore orientale, linee vocali femminili di chiara matrice gothic e i classici cori della tradizione Therion, che pure stridono al contrasto con arrangiamenti di gusto insolitamente moderno. Tutto sommato niente male, ma il meglio deve ancora venire. La prima gemma che cade sul nostro sentiero è proprio la title-track, brano dinamico e poliedrico in cui rieccheggiano squisite influenze folk, imperlate da un refrain sobrio e agile, ma straordinariamente coinvolgente. I ragazzi cominciano a prenderci gusto, l’album ingrana. “The Perennial Sophia” è la canzone che non ti aspetti: spoglia di quasi ogni contributo sinfonico, lascia che un tepore rigenerante si accumuli nel grembo di una melodia morbida e gentile, per poi liberarlo a poco a poco nelle trame di un tessuto vocale dei più raffinati. Vocalist ancora protagonisti nella straordinaria “The Wisdom and the Cage”, in cui la follia di una strofa oscura e visionaria si distende nella soave dolcezza di uno dei refrain più diretti e passionali della storia della band. Straordinario il modo in cui l’assolo di chitarra sfuma nelle orchestrazioni finali, dopo che brevi break di basso e tastiera avevano scandito le fasi dello sviluppo del brano. “Son of the Staves of Time”, un altro dei punti di luce dell’album, tradisce a tratti un’eredità ottantiana di cui i Therion non hanno mai voluto liberarsi completamente, e dimostra come una canzone possa suonare epica ed esaltante anche senza abusare dell’elemento orchestrale. Da antologia il chorus e da brividi l’assolo, ma i protagonisti assoluti sono qui il soprano Hannah Holgersson e soprattutto un grandioso Mats Levén, ecomiabile per passionalità e capacità interpretative.
Tenere il passo sotto il profilo della qualità diventa a questo punto un’impresa impegnativa per i pezzi a venire, e in effetti il finale del primo disco si dispone in calando. “Tuna 1613” si riavvicina alle sonorità di “Sirius B”, proponendosi come uno tra gli episodi più oscuri e potenti del lotto. Forte di un incedere bruciante e di un refrain incisivo, riesce a mettere in vetrina nel finale anche un bell’assolo di tastiere: è la ricetta giusta per strappare consensi, ma la spontaneità e lo spessore artistico paiono ridimensionati rispetto agli episodi precedenti. Il terreno si fa ora pesante: ci stiamo avviando verso una zona palustre nella quale, c’è da scommetterci, più d’uno resterà invischiato. Con la cadenzata “Trul” e la drammatica “Close up the Streams” si mettono infatti in luce i Therion più ambiziosi, da un lato, e massicci, dall’altro – ma purtroppo anche quelli più pedanti e dispersivi. I brani – vicino alla tradizione folk il primo, più cupo e moderno il secondo – riescono a sottrarsi allo spettro della banalità grazie a ritmiche complesse e a melodie ricercate, ma falliscono nel mantenere viva un’attenzione che comincia a essere messa alla prova dalla durata del disco.

Siamo al giro di boa, ed è il momento di tirare fiato. Fatevi una passeggiata, andate a prendere un caffè, schiacciate un pisolino: fate ciò che preferite ma non ascoltate subito il secondo disco. “Gothic Kabbalah” va assunto a piccole dosi, o il vostro apparato uditivo potrebbe uscire annichilito dal confronto. Siete stati avvertiti.

Siete pronti? Si riparte. Da un’introduzione subdola e tenebrosa prende le mosse “The Wand of Abaris”, che ben presto si apre a nuove influenze orientali, illuminate da un chorus solenne, mistico, ammaliante. Sì, i ragazzi sono subito tornati in carreggiata. È ancora l’oriente a suggerire lo spunto per la successiva “Three Treasures”, straordinaria per forza narrativa e capacità evocative. Sussurri avvolti da un'aura di tensione e mistero, a tratti spezzati da cori severi e incisivi, ci conducono per mano verso un refrain quieto, sognante, persino fiabesco. Sono pochi oggi a saper comporre musica di questo genere. Più controversa la seguente “The Path of Arcady”, nata sotto i migliori auspici con l’epicità delle chitarre subito in primo piano e una raffinata trama di scambi vocali a dominare la scena, colpevole però di disperdersi nella sua seconda parte in divagazioni strumentali poco incisive. Forse consapevoli di dover in qualche modo mettere a segno un colpo sicuro, così da scuotere anche l’ascoltatore più distratto, i ragazzi gettano nella mischia la convulsa “T.O.F. – The Trinity”, assalto frontale in cui salgono alla ribalta i Therion più aggressivi e potenti. Le chitarre ruggiscono, i cori si innalzano austeri verso un cielo in tempesta, squassato dai tuoni irregolari di un sessione ritmica a dir poco divina. Il colpo è a segno, e incide anche in profondità.
Meglio però tirare il fiato. L’occasione è subito offerta dalla sorniona “Chain of Minerva”, che saprà dimostrarsi uno degli episodi più piacevoli e riposanti del lotto, a patto che le concediate il tempo di rivelare la proprie grazie. Qui la band si affida in toto al proprio potenziale canoro, consegnando le redini dirattamente nelle mani dei suoi vocalist, scortati da una strumentazione discreta e mai invadente. Un brano poco appariscente, ma di gran classe. Ci avviciniamo al finale. Si accelera di nuovo con “The Falling Stone”, scheggia speed-power che pure non riesce a lasciare il segno, nonostante uno spettacolare assolo di chitarra incastonato nella sua fase mediana. Purtroppo sono episodi anonimi come questo a impedire a "Gothic Kabbalah" di fissare negli occhi i suoi più nobili predecessori, e sorge il sospetto che un ridimensionamento della tracklist avrebbe giovato all'intero disco. Ma niente paura, avrete modo di rifarvi.

La fine è importante in tutte le cose, e l’arduo compito di chiudere le danze in grande stile è affidato alla suite – ci mancava – “Adulruna Redivivia”, ponte proteso verso il futuro a ideale collegamento con il venturo album della band (è quasi pronto, lo sapevate?). Si può dire che i Therion abbiano tenuto il meglio per ultimo: siamo infatti di fronte a quello che il sottoscritto elegge senza esitazioni a capolavoro incontrastato del disco, l’apogeo sommo del genio compositivo di Johnsson e Niemann. Siete al cospetto di una colossale creatura dai diecimila volti, capace di strapparvi dai vostri sonnacchiosi giacigli e scaraventarvi in un mondo mistico, perduto nel tempo, ove sarete accolti dal nobile contegno degli aulici cori, sfidati dalla carica di riff epici e battaglieri, consolati da morbidi assoli e riscaldati da sussurri armoniosi, e poi ancora ipnotizzati da prodigiosi incanti sonori, in attesa che un’ondata di maestose orchestrazioni vi investa in pieno con tutta la sua potenza. Sempre che abbiate abbastanza fiato per arrivare sino in fondo.

Venti anni sono trascorsi da quando il genio di Christofer Johnsson infondeva il primo alito vitale in una creatura mirabile e sorprendente, destinata a mutare innumerevoli pelli, ogni volta ardendo con le fiamme del suo soffio gli animi di quanti si imbattevano in essa – una creatura chiamata Therion.
Oggi il grande drago continua a diffondere il proprio alito di fuoco attraverso il suo più giovane discendente. “Gothic Kabbalah” è un'opera complessa e impervia, lo si è detto. Chi la affrontasse impreparato, magari credendo di potersene sbarazzare in breve termine, rischierebbe di finire miseramente stritolato tra le sue spire. Armatevi dunque di un’infinita pazienza, richiamate tutta la vostra attenzione, e preparatevi a un viaggio lungo e difficile. Lentamente, addentratevi nella selva dei tentacoli della bestia, e mirate al suo cuore. Allora, forse, vedrete che cosa è davvero Gothic Kabbalah.

The band:
Christofer Johnsson: Guitar, Keyboards, Organs
Kristian Niemann: Lead and rhythm guitars, Keyboards
Johan Niemann: Bass guitar, Guitar, Acoustic guitar
Petter Karlsson: Drums, Guitar, Keyboards, Solo and choral vocals, Percussion
   
In close co-operation with:
Mats Levén: Solo and choral vocals, Guitar
Snowy Shaw: Solo and choral vocals
Katarina Lilja: Solo and choral vocals
Hannah Holgersson: Solo and choral vocals/soprano


Tracklist:

CD 1:
1. Der Mitternachtlowe (05:38)
2. The Gothic Kabbalah (04:32)  
3. The Perrennial Sophia (04:53)
4. Wisdom And The Cage (05:13)
5. Son Of The Staves Of Time (05:10)
6. Tuna 1613 (04:21)
7. Trul (05:11)
8. Close Up The Streams (03:55)
   
CD 2:
1. Wand Of Abaris (05:50)
2. Three Treasures (05:30)
3. The Path To Arcady (03:53)
4. TOF - The Trinity (06:17)
5. Chain Of Minerva (05:28) 
6. The Falling Stone (04:50)
7. Adulruna Rediviva (14:36)

Voto 9

TWolff

Commenti: 7 (Discussione conclusa)
  • #7

    svey (venerdì, 23 novembre 2012 01:44)

    bellissimo cd dei therion in particolare il primo disco, nel secondo 1,2 pezzi si distinguono ma stupendi!

  • #6

    ridethestorm (mercoledì, 21 novembre 2012 01:21)

    mitici

  • #5

    eddy (lunedì, 19 novembre 2012 23:49)

    signori miei ci troviamo di fronte ad un capolavoro.

  • #4

    TWolff (domenica, 18 novembre 2012 13:14)

    Parole sante Storm999

  • #3

    storm999 (sabato, 17 novembre 2012 20:54)

    bellissimo come del resto tutti i cd dei therion

  • #2

    bonfire (venerdì, 16 novembre 2012 00:04)

    bellissimo disco da ascoltare attentamente

  • #1

    Dany75 (giovedì, 15 novembre 2012 22:03)

    buon gustaio ehehehehehe

"Se Dio fosse improvvisamente condannato a vivere la vita che egli ha inflitto agli uomini, vorrebbe uccidersi!".

Si presenta con questa frase di Dumas questo lavoro dei Type o Negative, band dedita ad un sound che mischia Beatles, Black sabbath e un pò di Gothic decadente a cui fà capo il lunatico Peter Steele , scomparso pochi anni fa. Questo disco uscì nel 2003 dopo anni di attesa ed avrebbe dovuto servire a rafforzare l'immagine della band dopo un album travagliato come "World coming down" del 1999, considerato dallo stesso Steele il loro peggior album; con un pò di sforzo in più i 4 Newyorkesi riescono a sfornare un disco niente male che include il solito mix di doom, melodie hippie e tappeti tastieristici a volte anche da cattedrale, ed in questo disco anche un pò progressive, unito a dei testi singolari che si fondono con il titolo dell'album stesso "Life is killing me"; Steele che di solito si occupa della stesura dei testi se la prende ad esempio con il sistema ospedaliero e contro i dottori, "i quali hanno il solo scopo di tenerti in vita per accrescere il loro conto in banca", oppure fa emergere il proprio lato misogino in pezzi come "How could she?". Non c'è dubbio che Steele scriva testi folli, tanto folli quanto ormai lo è l'uomo. Al cantante Newyorkese interessa criticare una società che va in decadenza anche solo a causa di singole persone, cosa non da poco che può rovinare la vita a chiunque. Ecco perchè la vita ci sta uccidendo!

Veniamo alla scaletta dei pezzi: "thr13teen " è una intro "doomeggiante" che sembra uscita dall'album precedente, ma già con la successiva "I don't wanna be me", pezzo veloce e dotato di un simpatico assolino, ci viene da pensare a "Bloody Kisses". Interessante "Less Than zero (<0)", dove riesce perfettamente il mix Beatles/Black Sabbath, con un sitar hippie, un coretto che proviene da "October Rust" e riffs pesanti sabbathiani. Lo stesso vale per la traccia 4 "Todd's ship Gods(above all things)", mentre "I like Goils" che sarebbe girls (deformazione fonetica dell'inglese di Brooklyn) è sfrontata e carica. La voce di Steele che finora è stata aggressiva e tenebrosa, si fà dolce e suadente nella elegante "...a dish best served coldly" almeno nella prima parte, che cede il passo al doom e ad un pizzico di progressive nella seconda parte, sapientemente interpretato dall'ottimo Josh Silver alle tastiere.

Altre canzoni degne veramente di nota (direi tutte quante) sono la omonima traccia che dà il nome al disco, "Nettie", molto "bloody kisses", "(We were) electrocute" e la perla "Anesthesia". Per il resto il disco si mantiene ad alti livelli, ma non altissimi secondo me come nel loro capolavoro assoluto che è "Bloody kisses" (non volevo ripeterlo ancora). Canzoni passate come "Black N. 1", "Christian Woman" rimarranno tali almeno fino all'uscita di un lavoro futuro che possa aggiungere tra il novero delle loro creazioni nuovi capolavori.

Intanto ci ascoltiamo questo "Life is killing me" che è comunque un ottimo disco alla sua maniera. voto 9

Dany75

Commenti: 5 (Discussione conclusa)
  • #5

    mador (sabato, 20 aprile 2013 18:07)

    I Type O Negative suscitano ammirazione a ogni loro uscita, perché nonostante il passare degli anni e delle mode, restano fedeli alla loro identità, al loro standard, anche se ormai è quasi del tutto scaduto in stereotipo. Soprattutto per questo "Life Is Killing Me" è un disco che in realtà non porta da nessuna parte, troppo poco avvincente per reggere la lunga durata, salvato soltanto da una classe immensa e da sporadici sprazzi di genialità.voto 6/10

  • #4

    J*a*m*S (giovedì, 15 novembre 2012 18:52)

    pace all'anima sua peter era un geniaccio :(

  • #3

    wader (mercoledì, 14 novembre 2012 23:59)

    e bhe! e bhe! discaccio assolutamente divino

  • #2

    rexor (mercoledì, 14 novembre 2012 23:44)

    apprezzo molto questa band,uno dei miei preferiti

  • #1

    oscurastructura (mercoledì, 14 novembre 2012 23:32)

    bellissimo mi fa viaggiare sto disco

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Forse è utile fare un prologo su questo album in quanto, essendo il capitolo finale di una trilogia, conserva elementi riscontrabili nel precedente distico assieme ad elementi nuovi comprensibili e ascrivibili all'interno di un percorso ben preciso.
Cosmosophy segna con la parola fine questo enigmatico, cabalistico e trascendente percorso intrapreso dai Blut Aus Nord.
Questo massiccio e criptico sentiero ha intrapreso una direzione di discendenza e di disgregazione fino ad arrivare alla frantumazione totale. Possiamo leggere quest'opera completa come il tentativo di distruggere il black metal partendo proprio da esso; anche se lo stesso Sect(s) conteneva elementi disturbanti e "anomali" per il genere, potevamo leggere questi come una soluzione stilistica di Vindsval, tanto era chiaro il suo intento di partire dal black metal per giungere altrove. La macchina furiosa e matematica del primo capitolo rallenta notevolmente con The Desanctification, le geometrie sonore diventano un grosso e lento groviglio di frequenze, un magma avvolgente e meglio disposto verso l'ascoltatore (la scelta stilistica si fa più comprensibile, meno ostica e più "universale").
Le linee-guida per Cosmosophy continuano ad essere Godflesh, Swans e Jesu, ma con le atmosfere apocalittiche degli Scorn e dei Greymachine. Molte sono le affinità col disco Memoria Vetusta II - soprattutto per quanto riguarda le linee melodiche delle chitarre e delle tastiere - e con le aperture ariose e epiche che lo connotavano.

Il distacco sonoro che c'è fra la "vecchia" Epitome XIII e la "nuova" Epitome XIV è ben marcato benché sono sempre le chitarre che congiungono insieme i due capitoli. Dagli zanzarii caotici e stordenti del XIII paragrafo partono incomprensibili cantilene che con il nuovo capitolo lasceranno spazio ai riff più melodici che siano usciti dal grembo dei Blut Aus Nord. Le chitarre si sommano l'un l'altra creando uno spazio aperto ma ben poco rilassante; da questo insolito fiume di luce sgorga un ordito di voci pulite, anch'esse indistinte e sovrapposte, di arcturusiana memoria ma mantenendosi sempre in uno stadio di atonicità. Le linee vocali si muovono in un sentiero para-meditativo: come i monaci tibetani di Gyuto che intonano una nota fondamentale talmente bassa da sembrare il ruggito di un animale, così profonda da non sembrare neanche umana; diverse linee vocali trascendono il loro stadio di umanità per fondersi l'una sull'altra e per apparire un unico coro.
Il risultato è un post-black metal che si somma ad un post-epic metal, o meglio: ciò che è anti-black diventa anche anti-epic perché l'intero approccio parte da un aborto. Le chitarre si muovono sempre su tonalità alte, melodiche e aperte, ma nascono abbassate di tono (in linea col passato), le voci pulite e il costante tappeto amalgamante di synth si configurano come le presupposizioni per un background epic se non fosse per il fatto che qui non c'è alcun fine positivo, alcuna vittoria o predominanze di buona condotta. C'è solo l'epicità dello sconforto e della disfatta, in un concetto che va al di la di qualsiasi principio di sublime; non ci sono più paragoni col terreno o col misurabile, c'è solo il terrore della vuota immensità.

Epitome XV disgrega ulteriormente quei pochi elementi portanti che potevano appena essere emersi. Lo sfondo noise/ambient rilascia un filtrato e malato parlato in lingua madre, una sorta di anti-hip-hop su un acidissimo e cibernetico trip-hop; se da una parte ci troviamo di fronte ai Dälek del black metal dall'altra parte riconosciamo i versi di Proverbs of Hell del capolavoro blakeiano degli Ulver.
La trasgressione sonora però si rigetta di punto in bianco in questo vortice teatrale fatto di drum machine e di inesorabili synth: la colonna sonora dell'apocalisse, la perfetta messa in musica della fine del mondo e la delineazione dei confini dell'universo.
Un perfetto sentore di sconforto e di abbandono emergerà in Epitome XVI dove le orchestrazioni raggiungeranno un vertiginoso apice da colonna sonora fantascientifica; in mezzo a quest'immensità l'ascoltatore è attraversato da arpeggi acustici a possenti correnti corali; da mefistofelici sussurri agli sconquassanti colpi di cassa; dalle martellanti e spezzettate chitarre ritmiche ad armoniche linee segnate dalle sovrapposizioni delle sei-corde...
Epitome XVII ri-allarga gli orizzonti con alcune delle linee più melodiche di sempre. Questa volta la voce pulita è una sola e nella sua assenza di orecchiabilità si scontra con una bellezza inaudita di synth e di luce. Le chitarre giocano a tracciare sentieri affini a quelle delle tastiere; poi nascono degli arpeggi acustici che si trasfigureranno grazie all'overdrive e alla bassa voce cavernosa di Vindsval: luminescenti scie nel vuoto e desolato universo cosmico.
La conclusione di questa titanica impresa è data da Epitome XVIII: un lunghissimo mantra fatto di reiteranti riff che si mescolano e si trasformano per rinascere continuamente, per tornare al punto d'origine, per perdersi nell'infinito.
Il mantra è un insieme di oscillazioni "kosmische" e di ruomori che sembrano provenire da tibetani tromboni raag-dung
L'esito di questo Cosmosophy l'avevamo supposto poco tempo fa quando si diceva:

La creazione diventa una morte cosmogonica mediante la quale la potenza concentrata della divinità viene offerta e sparsa: ma la discesa e la diffusione della potenza divina sono seguite dalla sua resurrezione, quando i Molti sono "ricomposti nell'Uno" *

Ecco che finalmente la potenza divina compare in tutta se stessa, ma collocandosi al di sopra di tutto, essa risulta inquantificabile e incommensurabile. Il lungo e sconvolgente viaggio dei Blut Aus Nord nasce come una sorta di teofania, si trasforma in un dato sensibile e macrocosmico per poi scendere nel particolare infinitamente ripetibile nelle sue strutture. L'illimitata reiterazione mantrica genera il cosmo o meglio, genera la dottrina del cosmo. Ovvero dalla cosmofania alla cosmosofia. 

Voto 9 by Rexor

Commenti: 5 (Discussione conclusa)
  • #5

    SLAY (giovedì, 15 novembre 2012 00:54)

    no invece a me e' piaciuto molto

  • #4

    subzero (giovedì, 15 novembre 2012 00:28)

    a me non e' piaciuto molto

  • #3

    frank (mercoledì, 14 novembre 2012 23:40)

    molto bello da apprezzare!

  • #2

    oscurastructura (mercoledì, 14 novembre 2012 12:02)

    grandioso

  • #1

    sonya (mercoledì, 14 novembre 2012 02:04)

    disco che a me e' piaciuto molto

Diciassette anni di carriera alle spalle e sette album pubblicati con cadenza biennale. Non male come traguardo raggiunto (per il momento) dai Graveworm, ormai veterani e portabandiera (sopratutto all'estero) della scena estrema tricolore. La band altoatesina torna dunque sul mercato ad esattamente due anni distanza da Collateral Defect, fratello minore (e comunque pur sempre valido) di quel gioiellino denominato (N)Utopia, con Diabolical Figures, album numero sette della discografia edito dalla tedesca Massacre Records.

Nessuna ulteriore evoluzione in vista, i Graveworm ancora una volta preferiscono andare sul sicuro con un sound che è ormai diventato un marchio di fabbrica riconoscibilissimo a miglia di distanza. Possiamo dunque dire che si sono in qualche modo standardizzati? Può darsi... resta però il fatto che, ancora una volta, è la qualità molto molto alta delle composizioni ad essere la vera è propria arma vincente della band capitanata da Stefan Fiori. Brani estremamente duri e diretti, caratterizzati come sempre da partiture dal netto sapore death/thrash dove però, questa volta, troviamo una componente melodica ulteriormente enfatizzata, con il riffing serrato delle chitarre che spesso e volentieri lascia spazio alle incursioni sinfoniche delle tastiere di Sabine Mair. Quasi inutile soffermarsi sulla produzione curata da Andy Classen, assoluta garanzia in questo campo e che non delude le aspettative nemmeno in questa occasione.
Ad aprire le danze ci pensano le accelerazioni da capogiro di Vengeance Is Sworn, brano caratterizzato dai blast-beat di batteria nella parte iniziale e dagli accompagnamenti sinistri delle tastiere capaci, in più di un'occasione, di mettere in secondo piano il comunque ottimo lavoro delle chitarre, lasciando poi spazio ad una parte centrale condita da brevi accenni di melodia sui refrain. Rallenta invece di poco la marcia la successiva Circus Of The Damned, mantenendo comunque altissimo il livello di aggressività, grazie sopratutto all'alternarsi fra scream e growl del frontman Stefan Fiori, ottimo come sempre a prendere possesso delle luci dei riflettori e a guidare la corsa dei restanti strumenti. Il lato più epico della band viene messo in risalto con l'arrivo della title-track e di Hell's Creation, mentre la sognante Forlorn Hope lascia spazio ad atmosfere più gothic-oriented che ritroviamo sopratutto nelle parti di tastiera. Le restanti tracce invece aggiungono poco e nulla, risultando essere comunque coinvolgenti e convincenti, mettendo in mostra tutta l'esperienza accumulata dalla band in quasi vent'anni di carriera. Rimane comunque da segnalare l'ormai immancabile cover, questa volta rappresentata da Message In A Bottle dei Police, ancora una volta riuscita in pieno e, perché no, anche abbastanza divertente visto il genere proposto dagli altoatesini.

Solita e assoluta garanzia quindi. I Graveworm riescono ancora una volta a centrare in pieno il bersaglio, mettendo a frutto tutta l'esperienza accumulata in un ventennio circa, senza voler stupire a tutti i costi e senza comunque perdersi per strada. Diabolical Figures è un disco riuscito in pieno, capace di convincere anche dopo ripetuti giri nel lettore e che, sopratutto, farà felice chi ha apprezzato le evoluzioni stilistiche post-Engraved In Black.

 

Tracklist:
01 Vengeance Is Sworn
02 Circus Of The Damned
03 Diabolical Figures
04 Hell's Creation
05 Forlorn Hope
06 Architects Of Hate
07 New Disorder
08 Message In A Bottle (The Police Cover)
09 Ignorance Of Gods
10 The Reckoning

Voto 8.TWolff

Commenti: 3 (Discussione conclusa)
  • #3

    alvin (giovedì, 15 novembre 2012 02:06)

    bel dischetto , suonato bene

  • #2

    sonya (mercoledì, 14 novembre 2012 02:03)

    ottimo senza dubbio

  • #1

    josef666 (mercoledì, 14 novembre 2012 01:30)

    si album maturo e carismatico